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"La corsa in rosa del chirurgo per sconfiggere il cancro al seno", colloquio con Riccardo Masetti* di Federica Fantozzi

Riccardo Masetti, direttore del dipartimento di chirurgia senologica del Policlinico Gemelli e presidente della branca italiana della Susan G. Komen Foundation, il maggiore ente no profit americano contro i tumori alla mammella, è la dimostrazione vivente che nella vita seguire la linea retta non paga.
Figlio di un ammiraglio di Marina, a 12 anni viveva al limitare di un campo da golf a Washington e faceva il raccattapalle. A pagamento. A 17 anni era in piazza a Roma: «Era il ‘68. Il liceo Castelnuovo era il quartier generale di Potere Operaio e Lotta Continua. Ho fatto i moti studenteschi in grande spolvero. Ma da cane sciolto, senza legarmia nessun carro». A 19 anni, lasciando tutti di stucco, si iscrive all’Università Cattolica: «Meditavo se diventare medico o avvocato. Il primo concorso era in medicina. L’ho vinto ed è diventata la mia strada». Oggi, a 56 anni e con buona pace di predestinazione e sentieri segnati, Masetti organizza la Race For The Cure, maratona anti cancro con 53mila partecipanti. Le donne operate che vogliono offrire la loro testimonianza indossano una maglietta rosa. Domani la gara attraverserà Roma, e alle Termedi Caracalla è già in piedi il Villaggio della Salute: conferenze su alimentazione, fumo e vaccini; yoga e kickboxing; spazio bambini. Ma soprattutto esami e visite gratuite per chi non può permettersele: ecografie per la tiroide, pap test, studio dei nei, riservati a immigrate e assistite della Caritas.
«Chiediamo agli specialisti di regalarci un paio di giorni del loro lavoro». Jeans e camicia a quadri, Nike azzurre di pelle, Masetti si muove in moto tra sala operatoria e sopralluoghi. Racconta il fascino della chirurgia: «È una branca artigianale: fai lo stesso intervento mille volte e c’è sempre qualcosa di nuovo. E poi: o va o non va. I risultati si vedono subito, io non ho costanza». L’abilità manuale invece sì: «Ho imparato da bambino negli Usa che ogni lavoro riceve un compenso. L’indipendenza economica mi piaceva. Ho fatto il facchino a cottimo alla cooperativa di Ponte Marconi, imbustato frutta e verdura, allestito servizi tecnici per congressi». Il padre ammiraglio come reagiva? «Diceva: sulle cose lecite non interferisco. L’ho apprezzato. Anche se il dialogo tra noi finiva lì. Per anni i miei hanno temuto che qualche
poliziotto bussasse alla porta di casa, alla fine si sono tranquillizzati». Il passato sessantottino ha lasciato strascichi? «È stata un’esperienza vissuta senza dogmi: non mi piacciono le bandiere, portano spesso a
integralismi mentali». In facoltà era distratto dal lavoro: «Passavo le notti in sala operatoria, nelle urgenze mi lasciavano partecipare agli interventi». Si laurea in ritardo, ma i passaggi che lo segnano sono altri: «Per uno scambio studentesco ho scelto il Sudan. All’università di Karthoum ho visto la medicina a risorse zero, dove i gatti passeggiano in corsia e contano solo l’esperienza e la preparazione dei medici. Poi ho fatto il tirocinio a San Diego, l’altro estremo della sanità, elisoccorso e strumenti sofisticati. Questa “dicotomia”mi è rimasta dentro: il progresso non è solo inventare rimedi costosi di cui beneficiano in pochi, è accorciare le distanze tra chi può salvarsi e chi no». Dopo l’amore per la medicina sportiva, seguendo squadre di pallavolo intorno al mondo, tre figli lo hanno costretto a una vita più stanziale. La seconda svolta è succeduta alla passione per l’oncologia del seno: «L’incontro casuale con la Fondazione Komen ha cambiato tutto il mio modo di vedere e lavorare. Era il ‘98: loro volevano esportare il modello della Race che funzionava da 17 anni in cento città americane. Io ho proposto qualcosa di più italiano: iniziare da programmi educativi. Sensibilizzare. Preparare il terreno per radicarsi a fondo. Sono andato a Dallas a convincere i loro vertici. Tutte donne: mi hanno rigirato comein lavatrice, poi ho ottenuto un finanziamento di 250mila dollari. Lavoravo da 18 anni negli atenei italiani, dove se non sei raccomandato non vedi un soldo. Mi ricordo l’emozione di quell’assegno: in aereo ogni tanto lo tiravo fuori e lo guardavo. Al Gemelli facevo parte di un dipartimento di trenta chirurghi, tutte bellissime teste: da solo avevo più fondi di loro messi insieme». Masetti conosceva la mentalità americana: «Come ti danno fiducia, se non la meriti te la revocano. Ma 13 anni dopo quel viaggio a Dallas anziché a Lourdes, siamo ancora qui». La prima Race al Circo Massimo nel ‘99: 6mila partecipanti, 300 donne reduci dall’intervento. «Chiamavo le mie pazienti: “mi dai una mano?” Indossavano un discreto cappellino rosa pallido e avevano le facce un po’ perplesse». Undici anni dopo, c’erano 53mila iscritti da tutta Italia: quella romana è diventata la seconda dei 130 eventi Komen dopo Saint Louis. Nel frattempo, sono nate le gare di Bari, Bologna, Napoli nel 2010. La Fondazione conta uno staff di 10 persone e 500 volontari. Anche il modello di lavoro è americano: «Raccogliamo fondi e finanziamo progetti altrui. Ci ha chiamato un gruppo di donne di una cittadina del Sud che organizza il trasporto di ammalate povere. Ci siamo guadagnati rispetto perché, pur non essendo Telethon, distribuiamo il nostro tesoretto. Apriamo canali. Facciamo rete. Siamo figli di nessuno, senza padrini politici. Vincolati a una clausola sacrosanta: spendere per gli eventi solo il 25% dei fondi raccolti, il che significa meno vetrine e più risultati sul campo». Altrettanto innovativo è l’uso dei contributi raccolti: «Il 50% serve alla ricerca, che ha tempi lunghi e non dà soddisfazione al benefattore. Ecco perché l’altra metà è destinata all’assistenza a persone socialmente ed economicamente svantaggiate. Straniere clandestine. Anziane. Comunità di sordomuti. Visite a domicilio alle suore, che per pudore non fanno screening, e ai detenuti. Solidarietà in tempo reale che fidelizza i nostri sostenitori». I figli di Masetti intanto sono cresciuti. E lui può pensare di ripartire: «Stiamo costruendo un ospedale in Ghana. Efficiente, eh. Non vogliamo i soliti soldi spesi male».

*Oncologo al Gemelli e presidente della Fondazione Komen in Italia

L’Unità 21.05.11

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