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Gli immigrati alla seconda un po´ italiani e un po´ no", di Vladimiro Polchi e Giancarlo Bosetti

Sono due le identità che le seconde generazioni di immigrati musulmani sentono come proprie, quella di origine e quella di destinazione, ma sono due anche le Italie che risultano da questa indagine sociologica di Abis: due Italie più lontane tra loro di quanto non siano lontane la nostra penisola dalla costa maghrebina. La prima Italia, quella dove arrivarono i padri di questi ragazzi e ragazze, era accogliente, ricca, e più che ricca, in crescita; la seconda, dove si trovano ora, è chiusa, un po´ razzista e, più che povera, in declino. Quando i genitori varcavano le nostre frontiere, magari negli aeroporti con il visto turistico, o in auto da Trieste, mescolati al ritornovacanze, o avventurosamente via mare, noi eravamo comunque “Lamerica”, di cui al celebre film di Amelio, intravista nebulosamente nelle pubblicità di Rai Uno («e mia mamma – dice qui una ragazza – guardava la tv anche per imparare bene la lingua»), adesso l´Italian dream lascia il posto a pensieri grigi, anche se i giovani cresciuti qui si sono intanto affezionati, si sentono italiani, ma non sono pienamente accettati, come tali, e la differenza pesa nella vita di tutti i giorni.

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“Italiani della seconda (generazione”, di Vladimiro Polchi

«Integrarmi è una parola che non mi piace, come se avessi qualcosa che mi manca. Semmai è il contrario: pur sentendomi italiana ho qualcosa in più rispetto agli italiani, visto che ho vissuto anche in Egitto». «Integrare significa sommare, unire, mantenendo quello che sono e cercando di apprendere le novità positive: se per integrarmi devo togliere il velo non è integrazione». A parlare sono le seconde generazioni di musulmani in Italia, ragazzi e ragazze che si sentono «metà e metà»: mezzi italiani mezzi marocchini, o egiziani, o pachistani. La loro è un´identità bricolage, un mix di elementi presi a prestito dal Paese di origine e dall´Italia. Sono la generazione “50 e 50”, la doppia identità vissuta come ricchezza. Alla domanda «Cosa deve fare un immigrato nel Paese d´accoglienza?» la loro risposta è univoca: «Integrarsi, mantenendo le proprie tradizioni». Non mancano però i conflitti, specie nelle comunità più chiuse e impermeabili. Una per tutte: la pachistana.
Il contesto: oggi in Italia vive quasi un milione di minorenni stranieri e i figli di immigrati nati nel nostro Paese sono oltre mezzo milione. I musulmani sono un milione e 350mila, il 32 per cento dei migranti (un dato in calo: nel 2007 erano il 33,5 per cento). Cosa vogliono e cosa sognano i musulmani di seconda generazione? A rispondere è un´ampia ricerca realizzata da “Abis Analisi e Strategie” per conto dell´associazione Genemaghrebina, in collaborazione con il Cise della Luiss e la fondazione Italianieuropei, che verrà presentata domani a Roma nel corso di una tavola rotonda presieduta da Giuliano Amato. Al centro dell´indagine, due comunità di area mediterranea (marocchini ed egiziani) e una di area asiatica (pakistani).
Un passo indietro: chi sono i G2? «Coniata all´inizio del Novecento, l´espressione “immigrato di seconda generazione” è chiaramente un ossimoro – scrivono Marzio Barbagli e Camille Schmoll nel libro “La generazione dopo” in uscita il 13 ottobre per Il Mulino – per il buon motivo che una persona non può essere nata in un Paese e allo stesso tempo esservi immigrato». Stando comunque alle Raccomandazione del Consiglio d´Europa del ‘84 l´accezione di seconda generazione deve essere ristretta a quei figli d´immigrati che hanno compiuto nel Paese d´arrivo una parte della loro scolarizzazione o formazione professionale. Insomma ciò che determina il passaggio dalla prima alla seconda generazione è l´aver vissuto parte della “socializzazione primaria e secondaria” nel Paese di accoglienza.
«Sono 100 per cento egiziano quando sono in Italia, 100 per cento italiano quando sono in Egitto. Sento che le mie radici sono egiziane e sento il dovere di difenderle, poi però tifo per la nazionale italiana». I musulmani G2 rivendicano una doppia appartenenza, ai loro occhi la parola “integrazione” sembra una forma di impoverimento. Chiedono non assorbimento e omologazione, ma reciprocità. «Mi sento italiana per l´apertura mentale – racconta una ragazza intervistata nella ricerca dell´Abis – mi sento marocchina per il rispetto dei miei valori d´origine, una morale ben precisa che qui tende a volte a mancare». Dalle interviste emerge «una doppia identità – spiega Karima Moual, presidente di Genemaghrebina – un´integrazione come terza via, diversa dalle due esperienze principali, quella britannica e quella francese». Un risultato, questo, che trova conferma in altri studi: «L´identità trae spesso senso da un bricolage tra elementi presi dal Paese di origine e altri da quello di insediamento, in una combinazione di repertori culturali e pratiche sociali facenti riferimento a due mondi – scrive Elena Caneva che nel volume “La generazione dopo” in uscita per il Mulino analizza le diverse sfumature che l´identità assume – i confini dell´identità diventano più labili e meno definiti, si richiamano in modo interscambiabile al “qui” e al “là”, assumono un carattere transnazionale». Non è tutto. Il testo del Mulino riporta anche una ricerca dalla quale emerge che mentre l´86 per cento degli studenti italiani frequenta solo amici italiani, la metà dei giovani immigrati frequenta gruppi misti (composti cioè da italiani e stranieri).
Il rapporto dei giovani musulmani con il nostro Paese resta ambivalente: «Amano l´Italia che ha accolto le loro famiglie in anni ricchi (´80 e ‘90) – si legge nella ricerca Abis – ma vivono in un´Italia diversa, in declino, che da anni patisce una grave crisi economica. Un Paese che oggi tende a respingere, a fare sentire indesiderato lo straniero soprattutto se musulmano». I G2 dicono infatti di sentirsi doppiamente penalizzati dal loro essere stranieri e musulmani. Non si accontenteranno come i loro padri: «Desiderano buoni posti di lavoro e non immaginano di fare i lavori umili dei loro genitori. Hanno aspettative in linea con i loro diplomi e i loro sogni». Se l´Italia è vista come un Paese invecchiato, in crisi e un po´ razzista (anche per colpa dei media che diffondono «un´immagine stereotipata e sminuente di noi musulmani»), i Paesi arabi dai quali provengono le loro famiglie stanno vivendo invece una nuova epoca e molti sognano di tornarvi. «Noi diciamo che vogliamo tornare in patria perché la società ti fa sentire che non sei a casa, che non appartieni a questa società – sostiene un ragazzo egiziano – ti fanno sentire ingombrante, sei straniero, sei quello che porta via il lavoro, sei quello che non paga le tasse, invece non è vero». I giovani intervistati non negano le responsabilità delle proprie comunità e il ruolo negativo di alcuni imam: «La chiusura nei nostri confronti non si vede tanto a scuola ma per strada, nei supermercati, dove ti danno risposte sgarbate. È anche colpa nostra, però, che dopo 20 anni non ci siamo ancora aperti». Tutti si definiscono musulmani credenti e l´islam resta il più forte riferimento culturale e morale che abbiano. Le ragazze sottolineano che indossare il velo è una scelta personale, che nessuno le ha costrette a fare. Non manca però (in particolare tra le pakistane) la forte influenza, se non la costrizione, da parte delle famiglie. Non solo. Si registrano anche forti rotture con la cultura d´origine e l´adesione a modelli culturali della società italiana, soprattutto negli aspetti secolarizzati. «Genitori e figli, ma soprattutto figlie, si trovano spesso a vivere un conflitto feroce – avverte Karima Moual – la trasformazione di nuove identità sconvolge equilibri tradizionali consolidati. Porta a rotture definitive».
Dell´Italia, molti lamentano che la libertà di culto affermata dalla Costituzione resti solo sulla carta: poche le moschee e i luoghi di preghiera, molte le discriminazioni verso le ragazze velate («Indosso il velo – dichiara una marocchina – ma se voglio lavorare da un commercialista non mi prendono, posso fare solo le pulizie»).
I G2 sono lontani dalla politica, mostrano un qualche interesse solo verso i partiti di sinistra e verso Fini quando parla di voto amministrativo agli immigrati. Forte invece è l´ostilità verso la Lega e verso le posizioni xenofobe che esprimono molti uomini del Carroccio.
La ricerca sottolinea infine la specificità della comunità pakistana, spesso impermeabile al mondo esterno, isolata e dove «risulta evidente una minore integrazione della donna» che vive quasi esclusivamente all´interno della comunità familiare: «Le donne pakistane – ammette un intervistato – sono libere solo secondo la nostra cultura asiatica, secondo la vostra cultura no».

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“L´Italian dream e le incertezze della doppia identità”, di Giancarlo Bosetti

Sono due le identità che le seconde generazioni di immigrati musulmani sentono come proprie, quella di origine e quella di destinazione, ma sono due anche le Italie che risultano da questa indagine sociologica di Abis: due Italie più lontane tra loro di quanto non siano lontane la nostra penisola dalla costa maghrebina. La prima Italia, quella dove arrivarono i padri di questi ragazzi e ragazze, era accogliente, ricca, e più che ricca, in crescita; la seconda, dove si trovano ora, è chiusa, un po´ razzista e, più che povera, in declino. Quando i genitori varcavano le nostre frontiere, magari negli aeroporti con il visto turistico, o in auto da Trieste, mescolati al ritorno-vacanze, o avventurosamente via mare, noi eravamo comunque “Lamerica”, di cui al celebre film di Amelio, intravista nebulosamente nelle pubblicità di Rai Uno («e mia mamma – dice qui una ragazza – guardava la tv anche per imparare bene la lingua»), adesso l´Italian dream lascia il posto a pensieri grigi, anche se i giovani cresciuti qui si sono intanto affezionati, si sentono italiani, ma non sono pienamente accettati, come tali, né di fatto né di diritto, perché la differenza pesa nella vita di tutti i giorni («ci specchiamo nello sguardo degli altri») e una legge sulla cittadinanza che riconosca come italiani i bambini che nascono qui è di là da venire.
La doppia identità ha un valore aggiunto, per chi ce l´ha, ma se un tempo la forza di attrazione delle nostre città era irresistibile per ragioni economiche, oggi questa duplicità diventa incertezza sul proprio destino. Da una parte, qui, in Italia come in gran parte d´Europa, l´economia si sta arenando, dall´altra, nei paesi arabi ci sono le promesse di un risveglio di libertà, il che fa la prospettiva di un ritorno meno impensabile. E poi chi ha studiato qui ora somiglia ai suoi vicini di casa: ci sono nuove ambizioni, più alte di quelle dei genitori, e quanto maggiori sono le ambizioni tanto più cresce la frustrazione; molti non accetterebbero oggi gli stessi lavori fatti dai genitori e si sentono «doppiamente penalizzati» per essere trattati da stranieri e musulmani; il che apre una finestra sul baratro di ignoranza che spesso separa le famiglie di provenienza islamica dai nostri connazionali, con le ragazze che devono spiegare il perché e il per come del velo, che non necessariamente rappresenta una imposizione della famiglia, ma è una scelta di cui spesso sono fiere a Torino come al Cairo, e con le spinose discussioni sulle moschee e sui luoghi di preghiera, e tutti quei casi in cui scatta la reazione per cui, preghiera o non preghiera, chiedono rispetto per una cultura che è una parte del loro essere.
Su circa cinque milioni di immigrati in Italia, quasi un milione sono minorenni e, di questi, più della metà è nata qui. I musulmani sono circa un terzo. Si tratta di una porzione importante dell´Italia prossima ventura, che dovrebbe entrare a pieno titolo dentro un realistico e dinamico progetto di Italia. Non sono gast-arbeiter, lavoratori «ospiti» temporanei come molti italiani che andarono in Germania nel dopoguerra contribuendo al miracolo tedesco, sono residenti che attendono di diventare parte a pieno titolo dell´economia, della fiscalità e del discorso pubblico italiano. Avrebbero bisogno di una politica capace di tracciare con chiarezza il disegno di una cittadinanza inclusiva, con la stessa forza con cui il poco – per questo – citato John F. Kennedy affrontò e vinse la campagna elettorale del 1960 contro Nixon assumendo l´immigrazione come un punto di forza per la ricostruzione del primato americano, minacciato dall´Urss. La sua riforma dell´immigrazione, realizzata da Johnson, cambiò la faccia degli Stati Uniti. La destra, in America e dovunque, ha sempre usato l´immigrazione come perno delle sue retoriche minacciose. L´errore di molte forze politiche progressiste è quello di piegarsi sotto questa pressione e di non pronunciare discorsi chiari sul futuro che ci attende, sui compiti difficili di una politica di integrazione delle minoranze, sulle pratiche interculturali che devono diventare parte della nostra vita civile: la promozione della vita associativa delle minoranze, la sollecitazione di tutti i momenti della vita pubblica che aiutano il dialogo, gli incontri di cultura che promuovono la conoscenza reciproca, gli scambi da intensificare con i paesi di origine e in tutto il Mediterraneo.
Molta è l´ignoranza da diradare intorno alle differenze culturali che attraversano la nostra società. E lungo è il cammino che porta a diffondere un´idea della vita civile in cui la doppia identità di un cittadino, per cui si possa diventare marocchini-italiani o turchi-tedeschi a pieno titolo davanti all´anagrafe, non è una stranezza temporanea, ma un corredo permanente della modernità plurale nella quale ci troviamo a vivere.

La Repubblica 28.09.11