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"Le lacrime e la lotta", di Valeria Fedeli

Sono morte giovani donne a Barletta. Sono morte mentre lavoravano senza standard di sicurezza e di legalità,
senza contratto e sottopagate. Sono morte delle speranze per il futuro dell’Italia. Speranze che lottavano e faticavano per una vita decente. Erano lì, nello scantinato, sognando un futuro differente che il lutto ha bruscamente interrotto. Mi occupo di lavoro, da sindacalista, da molti anni. Non ci si abitua mai alle morti bianche, non c’è volta che le lacrime, l’indignazione, la rabbia, la tristezza non scoppino devastanti. L’esperienza, la mia e quella di chi mi ha preceduto nella lunga sfida della rappresentanza del lavoro, e del lavoro delle donne, mi ha insegnato però che lacrime, indignazione e rabbia possono e devono accompagnarsi alla voglia di reagire, all’azione, alla responsabilità.
A stare in campo per il cambiamento. Erano delle operaie tessili, le ragazze schiacciate dal crollo del palazzo a Barletta, come operaie tessili erano quelle da cui è partita la lotta delmovimento sindacale femminile. Sono passati più di cento anni dal famoso incendio che a Chicago uccise lavoratrici, in sciopero, bloccate nella fabbrica chiusa dal padrone. Dopo cento anni, qui in Italia, ancora le condizioni di vita e di lavoro delle donne – e a dire il vero anche degli uomini – sono precarie, a rischio, spesso sotto ogni livello minimo di decenza e di legalità. Le condizioni di lavoro, inaccettabili, come quelle delle operaie morte, e le condizioni di vita, come quelle della figlia dei titolari del maglificio, scomparsa anche lei a soli 14 anni, sono drammaticamente il simbolo dell’Italia che questa classe dirigente che governa il Paese non vede, non ascolta, a cui non dedica politiche e scelte positive. A cui non viene dato rispetto, speranza, futuro. Conosco bene la realtà di vita e di lavoro di tante donne come quelle che ci hanno lasciato.
Nel Sud abbiamo tanto combattuto contro queste condizioni. Un lavoro frammentato,non riconosciuto, non valorizzato. Filiere di produzione senza trasparenza e legalità, divise in tanti spezzoni, purtroppo non sempre rispettosi della legge. Quelle lavoratrici non avevano un contratto. La loro paga, per un lavoro faticoso e difficile, era tremendamente bassa e ingiusta. Il posto di lavoro non garantiva condizioni e procedure di sicurezza. Ma che Paese siamo? E almeno questa volta la risposta non può essere la crisi. Non c’è crisi che tenga rispetto allo scenario descritto. Di lavoratrici e lavoratori che, comequelle operaie, faticano senza veder riconosciuta la loro dignità e i loro diritti, rischiano la vita lavorando ce ne sonotante, troppi. Forse si può pensare che sia stato un incidente, ma è sicuramente anche il tremendo segno di un sistema che ha troppe fragilità, incurie, irresponsabilità; e in cui pagano sempre gli stessi. Eppure siamo un Paese migliore di questo, viene da dire usando una frase retorica.Mala retorica si spegne davanti al lutto. Qui abbiamo bisogno di un minuto di silenzio! Siamo un Paese che non funziona. Un Paese che tollera l’illegalità, o che non riesce a contrastarla efficacemente. Un Paese che non riesce a superare le differenze territoriali, con il Sud troppo spesso trattato come la terra dove tutto si può fare, incancellazione di regole, rispetto, umanità. Un Paese che non offre possibilità ai giovani, con un atto di miopia nei confronti del proprio futuro. Un Paese che non rispetta e non valorizza le donne, come il movimento nato il 13 febbraio ha in questi mesi portato all’attenzione di tutti. Dovremmo e vorremmo essere un Paese migliore, si. Ma non lo diventeremo senza una fortissima azione di cambiamento, senza riforme che restituiscano stabilità e giustizia al sistema, senza uno sforzo politico che rompa finalmente la stasi in cui siamo piombati. Donne e lavoro, giovani e sud. È da loro che dobbiamo ripartire, è nella forza tenuta costretta dalla fatica del sopravvivere che l’Italia può riscoprire il futuro.Sono addolorata dal pensare che, da oggi, il nostro futuro dovrà fare a meno dell’energia, dei sorrisi, dell’intelligenza, delle emozioni di cinque giovani donne. Ma l’energia che avevano deve accompagnarci, deve essere un pezzo della forza che ci serve per cambiare l’Italia. Anche per loro continueremo a lottare e a servire questo Paese.

L’Unità 05.10.11

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“A parità di lavoro, salari diversi fino al 18% tra uomini e donne”, di Virginia Lori

A parità di qualifica e impiego, la differenza di retribuzione tra uomini e donne in Italia si attesta tra il 10 e il 18% ed è dovuta interamente a fenomeni di discriminazione. Il dato è contenuto in una ricerca presentata al convegno della seconda commissione politiche del lavoro e sistemi produttivi del Cnel, curata da Emiliano Rustichelli (Isfol), che esamina il caso italianoe propone policy per una effettiva parità di opportunità nel mercato del lavoro. MENO SCOLARIZZATE Dalla ricerca, condotta su 10 mila lavoratori e lavoratrici italiane, emerge che il differenziale retributivo di genere misurato sul salario orario dei soli lavoratori dipendenti è pari in media a 7,2 punti percentuali. Il gap retributivo per le lavoratrici dipendenti risulta particolarmente elevato in alcuni ambiti: tra le donne meno scolarizzate raggiunge quasi il20%e si mantiene oltre il 15% per chi possiede la licenza media. Ne soffrono sia le giovanissime (8,3% di penalizzazione rispetto ai coetanei) che le lavoratrici adulte (12,1%), mentre è più contenuto nella fascia di età compresa tra 30 e 39 anni (3,2%).
SUD, MENO DIFFERENZE La forbice retributiva di genere appare meno pronunciata nel sud mentre, in termini di caratteristiche dell’occupazione, si rileva una marcata differenza di genere nelle retribuzioni medie orarie degli operai specializzati (20,6%), degli impiegati (15,6%), dei legislatori, dirigenti ed imprenditori (13,4%). Particolarmente elevata è anche la penalizzazione delle donne impiegate in professioninon qualificate rispetto ai loro omologhi di sesso maschile (17,5%).
SERVIZI FINANZIARI In termini settoriali, si registra una forte differenza nelle retribuzioni medie orarie di uomini e donne impiegati nei servizi finanziari e quelli alle imprese (rispettivamente 22,4% e 26,1%), nell’istruzione e nella sanità (21,6%), nella manifattura (18,4%). Per il Cnel non è più possibile «sprecare una forza lavoro qualificata e potenzialmente molto produttiva come quella femminile. Ma questo lavoro segue pubblicazioni anche recenti che hanno spiegato come in un momento come l’attuale ad essere penalizzate sono sempre le fasce sociali cosiddette più deboli, i giovani e le donne.
GENDER PAY GAP I fattori che generano il gender pay gap sono diversi e spesso correlati: fattori culturali e stereotipi di genere favoriscono la segregazione orizzontale e verticale e divaricano il gap di partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne, la mancanza di politiche di conciliazione costringe le donne a uscire dal mercato del lavoro, ne impedisce la continuità lavorativa e limita le loro opportunità di carriera. discriminazioni inaccettabili alla luce del fatto che le donne possiedono requisiti di formazione e di esperienza analoghi se non superiori a quelli degli uomini». Ma le donne sono più sensibili al tema di avere risorse sufficienti per la vecchiaia. Stavolta secondo un’indagine realizzata per conto di Axa-Mps il 20,8% delle donne contro il 16,2% degli uomini si preoccupa della gestione della cosiddetta fase di «lunga vita». Tra le maggiori preoccupazioni le donne indicano proprio di non poter godere di una pensione dignitosa (61,6%contro il40,6%degli uomini). Al secondo posto c’è il pensiero di non avere beni di proprietà a cui ricorrere in caso di necessità economiche: 40,2% delle donne contro 21,4% degli uomini. In fondo questo dato è molto complementare con quelli prodotti dal Cnel. ❖

L’Unità 05.10.11