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"I ricercatori vogliono essere pagati? Ma se già facciamo tanto per loro…", di Piero Graglia

Martedì scorso il sottosegretario Giuseppe Galati (Istruzione) è stato chiamato a rispondere a un’interrogazione dell’on. Manuela Ghizzoni (PD) circa la spinosa questione della retribuzione della didattica svolta dai ricercatori universitari a tempo indeterminato. Questione spinosa perché se pure la legge Gelmini stabilisce che tale didattica principale deve essere retribuita (pur nei limiti di bilancio dei singoli Atenei) le università fanno tutte finta di non sentire e, probabilmente, quei soldi li hanno già bell’e che spesi.
Ma è la costruzione della risposta all’interrogazione che è comica e, a tratti, francamente ridicola.
Prima di tutto si comincia con il negare che il Ministero sappia quale sia la percentuale della didattica principale (“curriculare”) svolta dai ricercatori oltre quella prevista come loro dovere (la cosiddetta didattica “integrativa”). In altre parole, dal 2005 a oggi non si è in grado di dire, e neppure prevedere, quanta sarà tale didattica per il prossimo anno accademico. Motivo? Disarmante: “il Ministero non è in possesso dei dati relativi alla percentuale di didattica curriculare affidata ai ricercatori di ruolo trattandosi di determinazioni assunte dagli atenei in piena autonomia e per le quali non è prevista una specifica comunicazione al Ministero”.
Be’, è giusto, se una università non comunica ciò che il ministero nazionale dovrebbe sapere, se non altro per scopi statistici, perché preoccuparsi? Un bel riferimento all’autonomia et voilà, rien ne va plus. Allora, a questo punto, se l’autonomia è un così importante valore per il Ministero, non si capisce perché la stessa legge di riforma faccia strame, senza tante preoccupazioni, dell’autonomia degli Atenei in tanti altri casi. Ma non è tutto: la risposta prosegue affermando che poiché ogni ateneo affida la didattica principale ai ricercatori in considerazione di diverse esigenze (pensionamenti, offerta didattica ecc.), ecco che “un panorama di esigenze così variegato rende[rebbe] peraltro non utile un’eventuale indagine a campione che produrrebbe risultati inattendibili in presenza delle descritte variabili relative alle diverse realtà culturali, didattiche e lavorative espresse nell’ambito universitario”.
Tanto zelo colpisce e commuove. Così fa un ministero leggero di un’amministrazione liberale: lascia ampio spazio, non si intromette, non si cura; dirige in maniera leggera e melliflua: laissez faire, laissez passer.
Peccato che con il DM 17, famigerato, dell’anno scorso, il Ministero abbia imposto stretti limiti nella definizione dei corsi di studio, richiedendo una contrazione generalizzata e parificando il ruolo dei ricercatori a quello del resto del corpo docente. Insomma: i ricercatori sono tali solo di nome, per il resto fanno didattica (devono farla) come tutti gli altri.
Questo il Ministero lo sa benissimo, e fa sinceramente ridere leggere come il sottosegretario si barrichi dietro al sacchetto di sabbia dell’autonomia e del rispetto del ministero per le scelte degli Atenei. Un sacchetto di sabbia crivellato dalle pallottole della Gelmini.
Ma il meglio arriva quando si tratta di rispondere alla domanda se non sia “opportuno prevedere un tetto minimo retributivo per i ricercatori ai quali sono affidati moduli o corsi curriculari con eventuale istituzione di un’apposita voce di spesa aggiuntiva rispetto al Fondo di finanziamento ordinario”. A questa terribile e sovversiva proposta il rappresentante del governo ha risposto che “tale iniziativa si porrebbe in palese contrasto con quanto espressamente previsto dalla norma di riferimento (articolo 6, comma 4, della legge 31 dicembre 2010 n. 240 [la legge Gelmini, NdR]) secondo la quale ciascuna università determina la suddetta retribuzione aggiuntiva «nei limiti delle disponibilità di bilancio e sulla base di criteri e modalità stabiliti con proprio regolamento» e, pertanto, un eventuale provvedimento del Ministero in tal senso risulterebbe contra legem”.
Nientemeno… Stabilire un tetto minimo di retribuzione oraria e un fondo dal quale gli Atenei – in piena autonomia, per carità – potrebbero attingere per pagare ciò che vogliono sia fatto gratis, sarebbe contra legem? Secondo il rappresentante del governo sì, e per di più lesivo del “principio dell’autonomia universitaria in virtù del quale gli atenei provvedono con proprie decisioni all’organizzazione e al funzionamento delle strutture didattiche e di ricerca, anche per quanto concerne i connessi aspetti amministrativi, finanziari e di gestione (articolo 6 della legge n. 168/1989)”.
In questo modo si tratta la questione, per nulla secondaria, della retribuzione della didattica aggiuntiva dei ricercatori. Ma dopo tanto bastone, una piccola carotina. Il presente governo – si sottolinea – “ha dedicato particolare attenzione alla valorizzazione della figura dei ricercatori prevedendo, nell’ambito della delega al governo ad adottare i decreti legislativi di riforma del sistema universitario, la revisione del relativo trattamento economico nel primo anno di attività e, a tal fine, ha stanziato la somma di 11 milioni di euro”.
Ammesso e non concesso che tali soldi riescano a riequilibrare una retribuzione che, per i nuovi assunti, è addirittura insultante, non si riesce a capire che si sta parlando di due cose diverse: promettere di adeguare (perché di promessa si tratta) la retribuzione di partenza è altra cosa che prevedere che ciò che esula dai propri compiti venga retribuito.
Sarà sindacale e antipatico, ma è su questioni come queste che si valuta la serietà e la capacità di un governo di rispettare principi e regole.
Qui invece si cambiano le regole, si inventano i principi, li si applica quando fa comodo e li si ignora quando conviene. Al tramonto del governo Berlusconi le “carotine” non si contano, si fa la stima dei danni, e non si è sicuri che chi verrà dopo avrà voglia, capacità e tempo per sanarli.