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"Cambiare ancora per rendere equa la previdenza", di Cesare Damiano

Il Partito democratico ha sostenuto la formazione di un governo di emergenza formato da soli tecnici. Si tratta di un
passaggio necessario perché la casa brucia: le incertezze dell’Europa, che abbiamo registrato in queste ore, non aiutano a migliorare la situazione. Noi adesso, come Paese, dobbiamo fare la nostra parte ma senza rinunciare a quel principio di equità sociale e di spinta verso la crescita che il presidente Monti ha giustamente accompagnato al tema del rigore e del pareggio del bilancio. Per questo, il Partito democratico è impegnato a fondo in un’opera di correzione e di miglioramento della manovra.
Si va verso un «mini emendamento» capace di comprendere le posizioni essenziali dei partiti che sostengono il governo, al fine di raggiungere un compromesso con l’esecutivo che faccia comprendere al Paese che non si colpisce dalla solita parte, cioè prevalentemente i ceti medio-bassi. Tra i temi sociali spicca quello della previdenza che riguarda milioni di persone, per il quale in commissione lavoro della Camera si sono raggiunti alcuni punti di intesa tra Pd, Pdl e Terzo Polo.
Il primo riguarda l’adeguamento al costo della vita delle pensioni che va elevato fino a tre volte il minimo, cioè a 1.440 euro lordi mensili. Si tratta di una misura di equità che interessa le pensioni medio-basse che non possono essere penalizzate nel loro potere d’acquisto, in un momento di crisi economica così acuta e di difficoltà ad arrivare a fine mese. Le
alternative di prelievo ci sono: ad esempio sulle pensioni d’oro e sui capitali scudati, il cui previsto prelievo dell’1,5% potrebbe essere significativamente più elevato. Il secondo punto riguarda il tema della prevista abolizione delle quote per l’anzianità, che consentivano nel 2012 ai lavoratori di andare in
pensione con 60 anni di età e 36 di contributi (quota 96). La cancellazione di questa possibilità potrebbe costringere molti cittadini ad un rinvio anche di 6 anni del momento di uscita verso la pensione. Per questo motivo va inserito un correttivo di gradualità che impedisca tale salto che equivale a due volte l’ormai noto «scalone Maroni» di tre anni. Il terzo problema è
rappresentato dalla necessità di cancellare la penalizzazione del 2% per ogni anno prevista per quei lavoratori che vanno in
pensione di anzianità con i 42 anni di contributi, ma che non hanno raggiunto i 62 anni di età. Si tratta di una misura iniqua che riguarda persone che hanno iniziato a lavorare tra i 15 e i 19, circa 100mila, che ogni anno usufruiscono di questa possibilità. Eliminare questa penalizzazione costerebbe, conti alla mano, circa 100 milioni annui: risorsa facilmente recuperabile, anmeno che non ci sia una forma di particolare accanimento verso chi, avendo prevalentemente svolto lavori
manuali, debba non solo veder portata l’età di pensionamento ai 42 anni di contributi, ma anche pagare dazio per poter avere l’assegno pensionistico. Ricordo sempre che i lavoratori manuali hanno, dal momento della pensione, un’aspettativa di vita mediamente di 6 ani inferiore a quella di un professore universitario. Nella giornata di ieri, a conclusione della discussione generale delle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, il ministro Giarda ha parlato di «spazi finanziari assai limitati»: vorrei che il governo comprendesse che con queste correzioni cerchiamo di produrre uno sforzo per portare al Paese una manovra nella quale la parola equità costituisca un elemento portante e non un’appendice. Infine, vorremmo
sottolineare come nel corso della discussione sui temi dello
Stato sociale il governo abbia parlato di un secondo tempo,
quello dedicato agli ammortizzatori sociali. Abbiamo sempre diffidato della politica dei due tempi, ma ci auguriamo che in questa situazione l’esecutivo abbia già provveduto a mettere da parte le risorse, assai ingenti, che saranno necessarie per le giuste tutele sociali per chi non ha il lavoro nei momenti di crisi. Non vorrei trovarmi di fronte ad un secondo tempo con una riforma debole e, magari, con la clausola della licenziabilità
per motivi economici

L’Unità 10.12.11

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Bersani, simpatia per lo sciopero «Migliorare le misure, di Maria Zegarelli

Un atteggiamento di simpatia verso l’iniziativa dei sindacati di lunedì prossimo». Questa la posizione del segretario Pd Pier Luigi Bersani anche alla luce delle polemiche che stanno attraversando il partito rispetto all’atteggiamento da avere nei confronti dello sciopero generale unitario di Cgil, Cisl e Uil. Se Enrico Letta, Beppe Fioroni, Francesco Boccia – ma anche Franco Marini e Massimo D’Alema – ritengono che in questo momento il Pd si debba concentrare per migliorare la manovra in Parlamento. Per molti sarebbe come tenere il piede in due scarpe: votare la manovra e protestare con i sindacati in piazza. Bersani cerca la sintesi: «Di fronte all’unità dei sindacati – è il suo ragionamento – e alla piattaforma dello sciopero che va più o meno nella direzione auspicata anche dal Pd su pensioni, ici e indicizzazione, il nostro non può che essere un atteggiamento di simpatia, anche perché qui nessuno chiede di stravolgere la manovra ma di migliorarla».
Posizione che, è di facile previsione, troverà più di qualcuno in disaccordo, soprattutto tra chi in questi ultimi giorni è tornato a prendere le distanze da quei dirigenti – come Stefano Fassina e Cesare Damiano – che hanno annunciato di andare al presidio del sindacati. «Non possiamo essere il partito di lotta e di governo», le argomentazioni di quanti, come Letta, vorrebbero lasciarsi «alle spalle, e definitivamente, il ricordo dei ministri e dei sottosegretari militanti che partecipavano alle manifestazioni organizzate contro quel governo Prodi
di cui essi stessi facevano parte». Ma non è solo lo sciopero ad agitare il partito. Sono ben altri i movimenti che in questi giorni si registrano tra i democratici. Alessandro Maran, vicecapogruppo alla Camera, area Modem ma già iscritto al partito dei «montiani», parla apertamente di eventuale scissione se non si arriva ad una definizione della linea politica
e chiede un congresso anticipato. Il governo ha cambiato la geografia politica, argomenta, «e non prendernen atto, per i vertici del Pd, sarebbe un errore molto grave». Come? «Con un congresso anticipato», altrimenti, «potrebbe accadere qualcosa.
Persino una scissione». Enrico Morando parla «di due modi diversi di relazionarsi» dentro il Pd rispetto al governo Monti: chi non vuole allontanarsi dalla linea uscita dal congresso e chi vorrebbe cogliere l’occasione «per diventare quel genere di partito riformista che noi tutti abbiamo sempre sognato». Beppe Fioroni lancia, invece, una doppia provocazione. La prima alla sua stessa corrente, «I modem – dice- ormai sono diventati una categoria filosofica», poi al partito stesso: ma non è che si sta andando verso una grande coalizione alle prossime elezioni con il tripartito che oggi appoggia Monti? «Quando anche Franceschini apre al proporzionale per la nuova legge elettorale è evidente che si pensa ad altro.
«In quel caso sarebbe bene dirlo», aggiunge, spiegando che secondo lui il Pd dovrebbe archiviare Vasto e lavorare ad una coalizione con il terzo Polo. Ma a parlare apertamente di grande coalizione e del progetto a cui si lavora per costruire un grande partito di centro con pezzi di Pd e Pdl è Rocco Buttiglione: «Solo se ci fosse ancora Monti in campo si potrebbe pensare di andare al voto con il Pdl, il Pd e il Terzo Polo insieme. Casini, invece, potrebbe essere il leader di una coalizione che nasca dopo il voto». E aggiunge:
«Non c’è nessun progetto di grande partito cattolico: esiste l’idea di costituire un partito laico di ispirazione cristiana formato da parte del Pd, noi e una parte o di tutto del Pdl».

L’Unità 10.12.11

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