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"Bersani: si lasci stare l’articolo18", di Ronny Mazzocchi

Negli ultimi quindici anni il mondo del lavoro italiano ha conosciuto un profondo mutamento dal punto di vista legislativo, strutturale e sociale. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, infatti, l’Italia ha adottato una serie di riforme per rendere il mercato del lavoro meno rigido.
Il tutto con l’idea che una maggiore flessibilità sia dei salari sia delle norme che regolano assunzioni e licenziamenti avrebbe favorito la crescita dell’occupazione, ridotto la disoccupazione e incoraggiato la crescita economica.
Si tratta di un tema su cui si è tornati prepotentemente nelle ultime settimane, con varie proposte che si sono spinte fino ad auspicare una maggiore flessibilità in uscita attraverso la modifica o addirittura l’abrogazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. La tesi di fondo è che l’introduzione dei contratti flessibili, ottenuta attraverso il pacchetto Treu del 1997 e la legge Biagi del 2003, avrebbe favorito l’ingresso nell’area dell’occupazione di moltissimi giovani, ma che il permanere di un basso livello di occupazione e l’esplosione del fenomeno della precarietà siano dovuti alla diffidenza delle imprese ad assumere i lavoratori in un contesto istituzionale con forti protezioni per gli occupati a tempo indeterminato. Solo facilitando la licenziabilità dei lavoratori sarà quindi possibile garantire maggiori posti di lavoro e un miglioramento delle condizioni lavorative per i giovani.
La linearità del ragionamento, unita all’indubbia efficacia retorica del termine “apartheid”, sembra però contrastare con alcune indicazioni che vengono da recenti pubblicazioni economiche. Innanzitutto l’affermazione secondo cui l’ampliamento delle norme che hanno esteso la gamma dei contratti di lavoro atipici abbia contribuito a migliorare la posizione dei giovani agevolando il loro ingresso nel mondo del lavoro e riducendo la loro situazione di svantaggio nei confronti dei lavoratori adulti andrebbe valutata con maggiore cautela. Sebbene le statistiche ufficiali evidenzino come l’introduzione dei contratti a termine abbia effettivamente determinato almeno fino allo scoppio della crisi la riduzione dei tassi di disoccupazione giovanili, lo svantaggio sia assoluto che relativo dei giovani rispetto agli adulti non solo non si è ridotto, ma è addirittura aumentato.
Una recente indagine Ocse ha infatti evidenziato come il rapporto fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli adulti sia aumentato, in Italia e nella Ue, in tutto il decennio che precede la crisi del 2008. Se nel 2000 per un giovane italiano il rischio di restare disoccupato era 3,2 volte quello di un adulto, nel 2008 tale valore era già salito a 3,7. La riduzione osservata nella disoccupazione giovanile in Italia fino al periodo pre-crisi, quindi, non sembra tanto da attribuire all’allargamento dei contratti atipici, ma ad altre forze. Risultati poco incoraggianti arrivano anche dall’integrazione dei giovani nel mondo del lavoro. Non solo i tassi di occupazione giovanile sono rimasti molto bassi, ma il differenziale rispetto al resto della Ue è aumentato in modo preoccupante per tutte le categorie di età e di sesso considerate, con l’unica eccezione delle donne sopra i 30 anni. Anche il vecchio adagio secondo cui un lavoro precario è comunque meglio di nessun lavoro, perché una volta dentro il mercato sarebbe più facile trovare altri lavori, non sembra trovare conferme nei dati.
Il Rapporto sul mercato del lavoro elaborato dal Cnel evidenzia infatti che la probabilità per un lavoratore a termine di essere occupato a distanza di un anno, non solo è più bassa di chi è occupato con un contratto a tempo indeterminato, ma è addirittura diminuita nel corso dell’ultimo decennio. Questa conclusione sembra confermata da un altro dato: non vi sono effetti positivi sull’addestramento e sulla formazione generale delle persone occupate con contratti a termine. Questi ultimi svolgono un ruolo di porta d’accesso al lavoro permanente quando il rapporto di lavoro interessa lo stesso datore di lavoro, mentre questo non sembra vero fra le imprese. E in ogni caso il tempo richiesto per la trasformazione di una relazione contrattuale da temporanea a permanente è piuttosto lungo e questo lascia supporre che le imprese tendano ad utilizzare una sequenza di contratti a termine come strategia per ridurre il costo del lavoro, piuttosto che come uno strumento per selezionare la manodopera. Da ultimo, molti dubbi permangono sugli effetti che una minore tutela del lavoro dovrebbe avere sui livelli di occupazione e sulla crescita economica. Le indagini economiche condotte negli ultimi anni non evidenziano alcun legame fra regimi di protezione dell’impiego e tassi di occupazione. Al contrario, se da un lato le istituzioni possono rendere difficile licenziare, dall’altro la certezza di un rapporto di lavoro duraturo sembrerebbe aumentare l’efficienza e l’impegno del lavoratore e, per questa via, la produttività. Un elemento importante da tenere in considerazione in vista della cosiddetta “fase due” del governo.

L’Unità 20.12.11

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«Abolire il precariato. Lavoro, questa la prima riforma», di Luigina Venturelli

Sociologi ed ex sindacalisti d’accordo: non si crea occupazione rendendo più facile il licenziamento, le cifre parlano chiaro L’ex leader Cgil Cofferati: il vero problema è la crescita. Qualcuno osserva: «Come minimo non va al nocciolo del problema». I più benevoli commentano: «Pecca di cattivo tempismo». Mentre quelli abituati a diffidare tagliano corto: «La dice lunga sulle reali intenzioni politiche di questo governo». La scelta del ministro Fornero di sollevare adesso, e per l’ennesima volta in questi ultimi anni, la questione dell’articolo 18 non ha certo entusiasmato gli addetti ai lavori. Sociologi e giuslavoristi, semmai, la ritengono una strada pericolosa sulla quale l’esecutivo potrebbe inciampare in malo modo.
«Quella dell’articolo 18 si presenta come una sfida irragionevole, neppure politica ma esclusivamente ideologica, che non affronta minimamente i problemi quotidiani del lavoro. Mentre quel che ci va di mezzo è il destino del governo Monti: non invidio Susanna Camusso, e neppure Elsa Fornero», si limita a puntualizzare Aris Accornero, che nel 1999 sull’argomento ha pure pubblicato un libro profeticamente intitolato L’ultimo tabù. Perché affrontare «uno scontro inevitabile con il sindacato», è la domanda retorica che si pone l’esperto di sociologia industriale, quando ci sono ben altre questioni da affrontare, meno spinose e più urgenti?
«Per esempio, si potrebbe partire dalla proposta di riforma delle assicurazioni sociali presentata dal centrosinistra all’allora ministro Cesare Damiano. L’attuale sistema di ammortizzatori non può reggere ad una crisi come questa ed esiste un disordine pazzesco tra i diversi strumenti, spesso usati per finalità diverse da quelle originarie. Una riforma organica potrebbe portare anche risparmi, non solo costi».
Sugli stessi toni anche la collega Chiara Saraceno, benché convinta della «necessità di parlare prima o poi di una maggiore omogeneità di trattamento tra le diverse categorie e generazioni di lavoratori». Ma non è questo il momento: «Non si può parlare di articolo 18 senza aver fatto prima la riforma degli ammortizzatori sociali. E non è certo una questione urgente in questa congiuntura economica, visto che la maggioranza dei lavoratori è esclusa dall’applicazione della norma, perché impiegata in piccole imprese o con contratti atipici, mentre la maggioranza dei licenziamenti non avviene per giusta o ingiusta causa, ma perché le aziende chiudono a causa della crisi».
Oltretutto, a differenza del capitolo pensioni che può vantare un effetto immediato sul bilancio statale, quello aperto sulla norma più famosa dello Statuto dei lavoratori «ha più una funzione simbolica che effettiva». Dunque, conclude la sociologa, non produrrebbe nemmeno risultati apprezzabili per le finanze pubbliche.
Ancora più netto il giudizio di Luciano Gallino: «Affrontare ora la riforma dell’articolo 18 è una scelta totalmente sbagliata. Le cifre che parlano di disoccupazione, di chiusura di fabbriche, e di precari espulsi dal mercato del lavoro sono sempre più preoccupanti: ci si dovrebbe occupare di creare nuova occupazione, anche con metodi diretti d’intervento legislativo». I dati del ministero dello Sviluppo economico, secondo cui sono a rischio 90-100mila posti di lavoro nei settori industriali tradizionalemtne più forti, come quelli della cantieristica e degli elettrodomestici, stanno a dimostrare che «parlare oggi di iperprotetti nel mercato del lavoro non ha più alcun senso». Senza considerare «la leggenda metropolitana da sfatare secondo cui licenziamenti più facili porterebbero a nuove assunzioni».
La priorità è un’altra: «Il conto più pesante è stato finora pagato da un’intera generazione di giovani, e ormai di non più giovani, che hanno conosciuto solo tipologie di lavoro precario. Da lì bisogna iniziare, dall’abolizione del decreto attuativo della legge 30: a tal fine va bene anche il contratto unico di lavoro, ma senza veleno nella coda perché, per come è concepito adesso con possibilità di licenziamento, porterebbe solo nuova precarietà dove oggi ce n’è un po’ meno», prosegue Gallino. «Adesso i tre quarti delle assunzioni avvengono con contratti atipici, sfoltire quella giungla di precarietà sarebbe già un bel passo avanti».
L’ex segretario generale della Cgil Sergio Cofferati, protagonista di una storica battaglia a difesa dell’articolo 18, nemmeno si fa illusioni sul pessimo tempismo o sulla scarsa prudenza del governo Monti: «Non esistono in natura i governi tecnici, le scelte sono sempre politiche. Anche in questo caso l’esecutivo dà voce ad un’ossesione diffusa contro un diritto che garantisce la dignità dei lavoratori. il che la dice lunga sulle sue intenzioni sottotraccia». Oggi «il vero problema è la crescita, come creare posti di lavoro, non come licenziare, soprattutto dopo questa manovra recessiva».

L’Unità 20.12.11