lavoro, politica italiana

"Noi, Lama e la crisi ma il '78 è lontano", di Susanna Camusso

Quante differenze dagli anni di Lama oggi la precarietà è il primo problema

Caro Direttore,
nel suo editoriale di ieri Scalfari cita un´intervista a Luciano Lama, della quale si tralascia di ricordare le affermazioni sui profitti e sulla funzione “programmatica” dell´accumulazione che è fondamentale nel pensiero di Lama, e nella svolta dell´Eur.
La Cgil oggi, come Lama ieri, mette al centro occupazione e lavoro, ma mentre allora i salari crescevano, anche se molto erosi dall´inflazione, oggi siamo alla perdita sistematica del loro potere d´acquisto e ciò rappresenta una ragione importante della recessione in atto. La distribuzione del reddito tra profitti e retribuzioni non aveva lo squilibrio di oggi. Tutti, ormai, leggono in questa diseguaglianza la ragione profonda della crisi che attraversiamo e il motivo per cui le politiche monetariste non ci porteranno fuori dal guado.
La diseguaglianza è dettata dallo spostamento progressivo dei profitti oltre che a reddito dei «capitalisti», a speculazione (o si preferisce investimento?) di natura finanziaria. Così si riducono, oltre che la redistribuzione, anche gli investimenti in innovazione, ricerca, formazione e in prodotti a maggior valore e più qualificati.
Senza investimenti, si è scelto di produrre precarietà, traducendo l´idea di flessibilità invece che nella ricerca di maggior qualità del lavoro, di accrescimento professionale dei lavoratori, in quella precarietà che ha trasferito su lavoratori e lavoratrici le conseguenze alla via bassa dello sviluppo. In sintesi: lo spostamento sui lavoratori dei rischi del fare impresa.
Quale straordinaria differenza dal 1978! E ancora si potrebbe sottolineare che invece di avere attenzione ai redditi, si continua ad agire sulle accise, attuando una politica dei redditi senza nessun controllo dei prezzi.
Quanta disattenzione, poi, alle proposte vere della Cgil, quando indichiamo come priorità un Piano per il Lavoro, che per noi affronta i grandi temi del paese e interroga equità e crescita non come mantra per edulcorare, ma come scelte che devono intervenire sulla responsabilità e i comportamenti di ciascuno, se si vuole dare senso alla riduzione della diseguaglianza e riparlare di futuro.
Il Piano del Lavoro si misura con la funzione dell´intervento pubblico, troppo facilmente archiviato dal liberismo e dai suoi effetti evidenti, sulla funzione del welfare come motore di uno sviluppo attento alle persone e non mera «assicurazione» o costo, sulla funzione dello sviluppo che ha esaurito la spinta propulsiva del puro consumismo.
Ancora, un Piano del Lavoro per giovani e donne del nostro paese a cui non possiamo solo raccontare che avranno meno tutele perché i padri gli avrebbero mangiato il futuro. Un Piano per il Lavoro che voglia bene al nostro paese, non solo perché la Cgil (per troppo tempo da sola) ha indicato che non fare politiche industriali e di sistema ci avrebbe portato al declino, ma perché non ci sfugge il pericolo economico e democratico di una crisi prolungata di cui la disoccupazione è primo indicatore.
A noi è chiara l´emergenza così come la necessità di una nuova idea di sviluppo. Per questo, voler bene al paese e voler attivare i giovani, o meglio riconoscergli l´età adulta, può partire dalla scelta pubblica e politica di un Piano del Lavoro.
Un Piano per il Lavoro guarda, ovviamente, all´immediato e alla capacità di programmare. In questo quadro intende affrontare anche i nodi della produttività, della contrattazione, della rappresentanza, del mercato del lavoro, e soprattutto del fisco.
Il coro sull´importanza del rilancio della produttività trascura di cimentarsi con le cause del suo declino in Italia. O inventa cause di comodo: qualcuno arriva a teorizzare l´assurdità che sarebbe per colpa dell´articolo 18. Al contrario, la produttività nel nostro paese decresce al crescere della precarietà, che non ha neanche incrementato l´occupazione, producendo, invece, quel lavoro povero su cui sarebbe bene interrogarsi.
Per noi l´urgenza è la riduzione della precarietà che viene prima, molto prima, di altri temi. Nella riduzione della precarietà vi è compresa certamente la riformulazione degli ammortizzatori, su cui da tre anni abbiamo proposto una riforma. Vorrei poi ricordare che la mobilità annunciata dall´intervista di Lama è realtà da molti anni, che la Cigs ha la durata di un anno rinnovabile a due, che comunque ha un tetto, come pure la Cig ordinaria, in ogni quinquennio, che una stagione di riorganizzazione del sistema produttivo non deve disperdere professionalità e competenze. Oppure si deve ritenere che la società della conoscenza è solo dei manager? Credo che sarebbe bene per tutti, discutere fuori dai pregiudizi e dagli slogan facili, e non confondere l´emergenza con l´idea che «qualunque cosa può essere fatta».
Siamo i primi ad apprezzare che l´Italia sia tornata al tavolo dei grandi, a sostenere sforzi per far ripartire il paese, ma se ogni scelta presenta il conto solo al lavoro (nella finanziaria la cassa sulle pensioni; nelle liberalizzazioni il contratto ferrovie e l´equo compenso dei tirocinanti, ad esempio), abbiamo il legittimo dubbio, anzi la certezza, che si affronta il « nuovo» con uno strumento antico e che il fine non sia far ripartire il paese, ma “salvare il soldato Ryan”. Se sarà così, non si salverà l´Italia ma una sua piccola parte, che forse non ha bisogno di salvarsi, perché lo fa già tra evasione, sommerso e lobbismo di ogni specie.
Questa è un´ipotesi cui non intendiamo rassegnarci. Siamo seriamente impegnati al confronto su crescita e mercato dal lavoro: l´abbiamo preparato con un documento unitario, abbiamo guardato ai modelli europei, fra cui la Germania che usa l´orario ridotto finanziato dallo stato e non licenzia. Ci siamo trovati di fronte ad un documento del ministro, non condiviso da nessuno. Senza nostalgie di nessun tipo pensiamo sia utile proporre un negoziato vero e non affidarsi a ricette preconfezionate il cui fallimento è nei numeri della precarietà e della disoccupazione, a partire dai settecentomila posti di lavoro persi dell´industria in cinque anni.
* Segretario generale della Cgil

da la Repubblica del 30 gennaio 2012