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A caccia di lavoro armati di una Rete, di Rosaria Amato

«Bisogna considerare se stessi come cacciatori e non prede delle aziende. Siamo noi a dover scegliere la vita e il lavoro che desideriamo… così i social e la Rete possono aiutarci». Parole colte da un gruppo di discussione su Linkedin, il più popolare social network dedicato ai contatti professionali, che esprimono le aspirazioni delle ultime generazioni: un mondo meritocratico, dove le aziende navighino autonomamente alla ricerca delle figure più adatte alle proprie esigenze. Un mercato del lavoro democratico, che dia giusta visibilità e pari opportunità a tutti. Negli Stati Uniti oltre i due terzi dei direttori del personale utilizzano i siti di professional networking.
Google ha selezionato negli ultimi anni migliaia di dipendenti esclusivamente online. Il Vecchio Continente non è rimasto indietro: già oggi un’azienda su quattro utilizza diversi social network per dialogare con i potenziali candidati (indagine Employer Branding Online 2012 di Lundquist). «I social network», conferma Stefano Scabbio, presidente di ManpowerGroup Italia, «sono entrati a pieno titolo nel processo di selezione del personale.
Il datore di lavoro li utilizza intanto per capire che tipo di persona sei, per questo è fondamentale che i giovani gestiscano con accortezza la loro presenza in Rete: i selezionatori la scandagliano per verificare in profondità gli aspetti del profilo dei candidati». «Da circa un anno e mezzo il mercato delle ricerche è cambiato profondamente», conferma Paolo Citterio, presidente di Gidp, l’associazione dei direttori delle risorse umane. «Un tempo si rivolgevano al loro archivio di curriculum, adesso si aiutano con le ricerche condotte sui social network, anche perché rivolgersi alle società di recruiting costa». L’attenzione da parte delle aziende spingerà sempre di più i social network, assicura Citterio, a costituire canali privilegiati e rendere i meccanismi di ricerca più raffinati, chiedendo però un contributo economico agli utenti: «In parte lo fanno già. Per esempio anche in questo momento, mentre ci parliamo, da Linkedin mi dicono che il mio curriculum è stato visto da quattro utenti, e mi invitano a versare una piccola cifra se voglio che venga visionato da altri soggetti interessati».
Un maggiore uso dei social network potrebbe essere favorito dagli enti che, come Almalaurea, si pongono come obiettivo l’inserimento dei neolaureati nel mercato del lavoro. «Al momento il ricorso ai social network per finalità di recruitment è intorno all’11 per cento», spiega Francesca Ralli, tra i curatori dell’indagine “Percezione dei laureati da parte delle imprese” condotta da Almalaurea con l’Università di Bologna e Sw, «ma se guardiamo solo alle piccole e medie imprese, che in Italia rappresentano oltre il 90 per cento del tessuto produttivo, ci si ferma al 4-5 per cento. Ed è un peccato perché è un canale che i ragazzi utilizzano molto, che le grandi aziende conoscono bene, ma che le piccole imprese fanno fatica a utilizzare, perché spesso della selezione del personale si occupano il proprietario o il direttore dell’azienda, che anche per ragioni anagrafiche hanno poca dimestichezza con i social network». L’idea di Almalaurea, spiega Ralli, è quella di svolgere indagini periodiche per capire quali siano le esigenze delle imprese, e “incrociare” questi dati col proprio database che include un milione e settecentomila laureati, arricchendolo con elementi rintracciabili attraverso i profili “social”.
La rivoluzione sta per arrivare dunque anche in un mercato del lavoro asfittico come quello italiano, dove le conoscenze personali e familiari sono l’unica carta da visita dall’esito certo (il 55 per cento dei giovani trova la prima occupazione attraverso segnalazioni di parenti e amici, rilevava l’Istat in un’indagine del 2010; secondo Unioncamere viene assunto per conoscenza diretta il 50,7 per cento dei dipendenti, ai quali è da aggiungere un 10,3 assunto sulla base della segnalazione di conoscenti/fornitori). Del resto il 91 per cento degli italiani tra i 18 e i 30 anni è iscritto a un social network, il 55 per cento a un forum, il 34 segue uno o più blog con continuità, il 17 ne ha uno proprio (dati Duepuntozero): decisamente, i tempi sono maturi. «Grazie allo sviluppo del web e dei social, comincia a diventare determinante l’identità digitale legata alla persona», dice Davide Neve, ceo di Skillbros, startup nata da alcuni mesi con l’obiettivo di permettere ai propri utenti di “vendere” in rete le proprie competenze. Il futuro, assicura Neve, vedrà uno scambio di ruoli tra selezionatori e chi cerca di lavoro: «La prima fase non sarà più l’invio di un curriculum con conseguente attesa di un primo colloquio, ma l’interazione diretta con l’azienda che avrà con il candidato un primo approccio online».
Ma non è detto che le relazioni e i contatti stabiliti in Rete portino a un rapporto di lavoro tradizionale. Possono anche mettere insieme talenti, e favorire la nascita di startup. Ancora una volta, gli Stati Uniti hanno giù tracciato la strada, anche perché, assicura Neve, «da noi s’investe nelle startup l’equivalente di un dollaro per persona contro gli 84 investiti in America e i 15-20 investiti in Germania». Se tutti gli analisti concordano nell’affermare che quello dei social network sarà il canale privilegiato di confronto e azione in futuro, e la “reputazione” virtuale farà guadagnare o perdere molte opportunità, è difficile stabilire qual è attualmente il peso dell’e-recruitment in Italia. Qualche mese fa ha avuto molta risonanza un’indagine diffusa da Hr & Communication specialist, secondo la quale il 37,5 per cento delle imprese usa i social network per la selezione dei candidati. Ma da altre ricerche emergono risultati meno entusiasmanti: secondo l’indagine Excelsior di Unioncamere meno del 3 per cento delle imprese ha utilizzato nel 2011 i social network per il recruitment. Più ottimistici i dati di Gidp: i social network vengono usati per selezionare dirigenti e quadri dal 9 per cento delle imprese; per gli impiegati la percentuale scende al 6. Ma percentuali a parte una cosa è chiara a tuttio: il lavoro 2.0 è già cominciato e, assicura Scabbio,«non torneremo indietro».
Da La Repubblica