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"Per l'Italia un'altra possibilità: ecco la mia idea di alternativa", intervista a Pier Luigi Bersani

Segretario, lei ha lanciato il progetto dell’alternativa. Ma finora lo ha identificato soprattutto con la politica delle alleanze. In questo forum vorremmo provare a declinarlo in termini di contenuti.
Io sento fortemente l’esigenza di dare agli italiani un’altra possibilità. Questo è il compito dell’opposizione. E questa idea voglio calarla immediatamente nella realtà di oggi. Alternativa per me è, prima di tutto, cosa faremmo di diverso per affrontare la crisi economica. Serve una prospettiva per il Paese, per le nuove generazioni.

Allora partiamo subito dalle cose da fare.

Una premessa voglio ancora farla. Il Governo ha provato a far passare un messaggio di ottimismo di maniera e si è creato del conformismo rispetto a questa lettura. Incontrando il direttivo di Confindustria ho citato Amartya Sen: c’è un rapporto tra democrazia ed economia, perché la discussione pubblica ti permette di correggere per tempo gli errori. Io credo che la deformazione del meccanismo democratico abbia causato un’asfissia della discussione pubblica, abbia messo in timidezza le forze sociali e non ci abbia fatto leggere la realtà. Non stiamo, come tante volte si legge, meglio degli altri. Perciò la prima cosa alternativa che farei è un discorso veritiero agli italiani.

Il Sole 24 Ore ha premiato come uomo dell’anno 2009 per l’economia Giulio Tremonti per il rigore con cui ha tenuto dritta la barra dei conti. Ma ora è arrivato il momento delle riforme. Avete proposte concrete?

Se aveste chiesto a me chi è l’uomo dell’anno io avrei votato l’artigiano ignoto, che prima di lasciare a casa un lavoratore gli fa pulire il magazzino, ma adesso ormai il magazzino è pulito! In quanto a Tremonti ricordiamoci che nell’anno trascorso noi abbiamo avuto 5 miliardi in più di spese per beni e servizi, abbiamo il 10% in meno di Iva incassata a fronte di consumi stabili, abbiamo speso per Alitalia otto o dieci volte in più di quei 300-500 milioni di cui si parla ora per gli incentivi. Sono stati fatti degli errori. Questa è la verità e alla verità non rinuncio. Non si dica a noi che bisogna tenere in equilibrio i conti perché abbiamo dimostrato di saperlo fare meglio di altri.

Veniamo alle proposte concrete.

Dobbiamo agire sul denominatore, sulla crescita. Dobbiamo spingere gli investimenti. Nel 2010, rispetto al 2009, abbiamo un 12% in meno di spese di investimento. Serve invece un grande piano di piccole opere, perché le grandi opere hanno i loro ritmi. E poi l’economia verde, che è in grado di mobilitare anche il risparmio privato. Va rafforzato, quindi, il potere d’acquisto, con interventi per le famiglie numerose e per chi rischia di finire sotto la soglia di povertà. E dando un occhio ai settori tariffati – acqua, assicurazioni, rifiuti, trasporti – perché dall’inizio dell’anno vediamo andamenti non molto monitorati. E infine bisogna occuparsi subito e concretamente di liquidità delle imprese.

È in corso una discussione nel governo sugli incentivi alle imprese. Lei è stato al ministero dello Sviluppo, quali sono gli strumenti su cui punterebbe?

Non aver tenuto la barra dritta sul piano “Industria 2015” è stato un errore, perché lì c’era l’idea che l’innovazione era una priorità. Bisogna incentivare i progetti innovativi e garantire credito d’imposta automatico, in modo calibrato e secondo gli obiettivi. In più rilancerei due progetti paese: le bonifiche e la banda larga. Io avevo messo da parte credo 2,5 miliardi sui fondi europei per un progetto banda larga e altrettanto per le bonifiche. Sono spariti nel fondo omnibus di Palazzo Chigi.

Quando dice green economy è anche un modo per chiudere la porta al nucleare?

La porta la stanno chiudendo loro, non noi. Hanno lanciato l’idea del rientro sul nucleare in modo scomposto e inattuale. Il sistema non è pronto. A partire dallo smaltimento delle scorie. Puntiamo poi su tecnologie vecchie, non testate e non di nuova generazione, e per giunta francesi. Mi sembrerebbe più logico, invece, concentrarci sulla ricerca e ri-acquisire un nostro know-how sul nucleare e nel frattempo impegnarci nei settori critici dell’energia come l’efficienza energetica. Ecco, quando parlo di green economy parlo di questo: di ricerca, di nuove tecnologie, di nuovi consumi collegati al tema dell’ambiente. Sono occasioni di sviluppo.

Non potrebbe essere una grande occasione di sviluppo e cambiamento la riconversione industriale di Termini Imerese? Lo stabilimento Fiat è insostenibile com’è adesso.

Noi abbiamo centinaia di crisi industriali con caratteristiche diverse. Alcune sono crisi di natura finanziaria, altre sono legate ai costi, altre a deficit di imprenditorialità, altre a una sovracapacità produttiva da ridurre. Bisognerebbe classificarle in modo aristotelico e dare a ciascuna situazione una differente risposta. Sull’auto vanno accompagnati i processi di ristrutturazione. In Europa c’è un problema di sovracapacità produttiva, ma nessuno chiude gli impianti. Al massimo eliminano qualche linea di produzione, magari utilizzano i prepensionamenti. E da noi il problema della sovracapacità è meno grave. Perciò prima di giungere alla conclusione di produrre meno auto ci penserei su tre volte. Per Termini Imerese, sarò chiaro, la Fiat sta lì finché non si è trovata un’altra soluzione industriale.

Quale? Tra le ipotesi a un certo punto sono spuntate le «macchine agricole particolarmente adatte al territorio siciliano».

Si può puntare sull’innovazione, su nuovi prodotti. Si può installare a Termini Imerese una produzione innovativa dal punto di vista ecologico? D’istinto dico sì. La Fiat deve dare una mano. Mi sembra francamente indecorosa questa polemica sugli incentivi: è il governo, per primo, che deve fare la sua scelta. Così, mentre si discute sugli incentivi, rischiamo di passare alla cassa integrazione generalizzata. Si poteva agire già lo scorso anno, con un percorso di un anno e mezzo, e gli ultimi sei mesi con décalage.

Un piano di piccole opere, green economy. E le grandi opere? Durante l’ultimo governo Prodi sul fronte delle infrastrutture ci sono state delle frenate. È credibile la vostra proposta oggi, rispetto a due, tre anni fa?

Non esiste da parte mia e da parte del Pd alcuna remora sul tema delle grandi opere. Riconosco che un elemento di debolezza enorme del nostro governo dell’Unione sia stato di non aver mantenuto la promessa della compatibilità programmatica. Ma consentite a uno come me, che non ha fatto altro che amministrare, di dire che oggi siamo in presenza di una deriva pericolosissima: la tendenza a ricorrere a spa esterne, come sta avvenendo per la protezione civile, snatura il senso della pubblica amministrazione ma anche il ruolo del privato.

E il Ponte sullo Stretto?

Nessuna preclusione di principio, ma francamente non lo inserirei tra le priorità.

Le decisioni strategiche delle società pubbliche quotate devono essere lasciate ai manager o tocca alla politica industriale? L’Enel ha comprato in Spagna, indebitandosi, quindi ha chiesto un aumento di capitale da 8 miliardi. L’Eni respinge le proposte del fondo attivista Usa, Knight Vinke, che chiede la separazione tra attività nel gas e settore idrocarburi. Si può applicare il modello Terna all’Eni, con lo scorporo della rete gas?

Un paese deve garantirsi la padronanza, non necessariamente pubblica, delle reti. Questo lascia maggiore libertà nella competizione sui servizi. Se il capitalismo italiano ha il fisico per tenersi i servizi li tiene, se no, no, perché venir meno a questo principio ti porta a delle cose stravaganti. Per l’Eni, l’unica cosa secondo me da valutare è come viaggia il meccanismo di “golden share” delle operazioni legate alle reti, perché nel caso Eni questi servizi staccati dalla rete sono una realtà industriale che ha un valore strategico, è un’azienda presente nel mondo. Dico che non si dovrebbe mettere la contendibilità di Eni in una situazione troppo “sportiva”.

E se la rete gas venisse separata dall’Eni, ma sempre con lo Stato che controlla il 30 per cento?

Una soluzione che comportasse la separazione e che tuttavia ci tranquillizzasse sul punto della continuità di Eni potrebbe essere accettabile. Così come ho sempre pensato, per le telecomunicazioni. Mi stupirei francamente di un paese che ha investito circa 3 miliardi di euro per tenere italiana la compagnia aerea e poi sportivamente desse via la rete delle telecomunicazioni. Sull’Enel penso che siamo sospinti a quello che avevo immaginato quando feci lo spezzatino. Perché io pensavo allora che se la società era in posizione di essere reattiva, invece di stare sulla cuccia domestica, poteva fare qualcosa nel mondo. E quindi credo che, tutto sommato, la vicenda sia stata positiva.

Sul progetto Telecom-Telefonica lei è quindi contrario?

Bisogna capire bene, ma direi di mettere qualche paletto. Noi non possiamo, come sistema non come Stato, rinunciare alla padronanza sulla rete e neanche accettare artifici retorici che ci portano a dire che uno è il padrone, ma comanda l’altro. Il paese deve avere la certezza di avere in mano questo asset. Non so Telefonica cosa dica, se uno gliela mette giù così.

Il ministro Tremonti ha aperto il confronto su una grande riforma fiscale. Voi sarete al tavolo?

Nella sede propria che è il Parlamento siamo sempre pronti a discutere. Bisogna però partire dal tema di una maggiore fedeltà fiscale, perché le tasse crescono per chi le paga. Dobbiamo avvicinare una media di fedeltà fiscale europea e per farlo dobbiamo ricorrere sì alla deterrenza, ma serve poi la tracciabilità di tutte le operazioni e la capacità di premiare con abbassamenti fiscali quelle categorie che mostrano una crescita della fedeltà. Serve un piano di cinque anni su questo. Dobbiamo anche semplificare, aumentando la forfetizzazione per le Pmi e superando via via gli studi di settore. Ricordo infine che siamo l’unico paese Ocse che non ha una tassazione sui grandi patrimoni.

È d’accordo sull’ipotesi avanzata dalla Cgil di uno sciopero generale sulla questione fiscale?

Quando uno guarda i dati sulla fiscalità sul lavoro e vede come sono andate le cose negli ultimi dieci anni col meccanismo del drenaggio fiscale non può che concludere: fate quello che ritenete, anche uno sciopero. La curva dell’andamento fiscale non può essere accettata. Le strategie del sindacato se le vede il sindacato, ma non c’è dubbio che da noi c’è una forbice record nei redditi e che questo pesa anche sulla crescita del paese perché penalizza i consumi. Serve meno egoismo.

Lei propone il superamento degli studi di settore. Immaginate altre forme di prelievo per le Pmi? Nella strategia fiscale del Pd c’è anche un intervento sulle aliquote?

Non faccio promesse a vuoto. Il superamento degli studi di settore passa attraverso un colloquio diretto tra il fisco e il singolo contribuente. Con l’attuale meccanismo, qualcuno ci guadagna ma gli altri ne escono penalizzati. Qualche segnale concreto va lanciato anche ai professionisti, che soffrono molto in questa fase. In prospettiva, ritengo sia necessario giungere a un alleggerimento del carico fiscale. Se dovessi scegliere, mi concentrerei sulle famiglie, colpite dal drenaggio fiscale, e sulle imprese agendo sulla componente costo del lavoro dell’Irap. Sull’Irap non abbiamo alcuna preclusione ideologica. Si può ragionevolmente alleggerirla. Del resto, abbiamo cominciato già a farlo quando eravamo al governo. Ma non si venga a promettere di cancellarla senza dire cos’altro fare.

L’idea di alternativa ha anche bisogno di gambe su cui camminare. Lei ha vinto il congresso ponendo il problema delle alleanze e superando la vocazione maggioritaria di Veltroni. Ora siamo tornati al punto di partenza: l’alleato è sempre Di Pietro.

Le cose vanno viste nel flusso, nel percorso. Sono pronto a reggere tutte le intemperie. Dobbiamo offrire a questo paese un’alternativa. Se uno la vede così e registra i fatti a oggi la situazione è questa: l’Udc, che prima era con la destra in 13 regioni su 13, andrà in 3 o 4 con noi, 2 o 3 con il Pdl e per il resto da sola. L’Idv, salvo la Calabria, è con noi. Con i Radicali abbiamo accordi e, in alcune realtà, anche con Rifondazione. Con Sinistra e libertà e con i Verdi c’è intesa. L’idea che la destra ci collocasse nella ridotta di tre regioni e che disarticolasse un’opposizione litigiosa perde colpi.

Non temete che sulla giustizia e sull’immunità ci sia un condizionamento eccessivo da parte di Di Pietro?

Innanzitutto dico che se si ritiene, mentre si discute di leggi ad personam, di tirar fuori l’immunità parlamentare come un alleggerimento, questa è un’aggravante. La verità è che per venir fuori da questa lunga transizione, occorrerebbe uno statista che dicesse: adesso i miei problemi me li vedo io…

È interessante che in questa discussione lei abbia citato Berlusconi una sola volta mentre invece il dibattito politico è tutto pro o anti Berlusconi.

Il messaggio subliminale che vorrei lanciare agli italiani è che io e il mio partito camperemmo bene anche se non ci fosse Berlusconi. Ma è vero, siamo tutti vittime di questo meccanismo pro o contro che, alla fine, porta acqua sempre a lui. Ridimensioniamolo questo fenomeno. Lui ha governato 7 anni ed è in campo da 15: vi chiedo, in che cosa è cambiata l’Italia? Il Paese non ha fatto passi in avanti. L’abbiamo sconfitto quando siamo riusciti a non mettere lui al centro del dibattito. E dovremo rifarlo. Mettendo davanti l’economia, i lavoratori, le imprese.

I sondaggi raccontano che il centro-sinistra si è indebolito tra gli operai e nei ceti produttivi del Nord. La dimostrazione di questa vostra lontananza è Milano: non avete più vinto nella città simbolo del riformismo e del mondo produttivo. Perché?

Quali operai? E quale nord? Perché anche l’Emilia Romagna è Nord. Il problema è un altro: tutto si gioca sul territorio. Con la caduta delle ideologie, con la globalizzazione, è sul territorio che si formano gli orientamenti politici ed è lì che un partito organizza la sua personalità e la sua difesa rispetto a quello che succede nel mondo. Il mio messaggio sarà: il colore di un comune è il colore del gonfalone. Non è il verde.

Siete preoccupati dalla penetrazione della Lega in Emilia?

Non siamo noi a dare il sangue alla Lega, glielo dà il centro-destra. Questo non toglie la preoccupazione di vedere aggregati elementi che possono essere veramente in contropelo con principi di civiltà collettiva, a cominciare dal tema dell’immigrazione. Questa è una battaglia che dobbiamo fare, senza snobismi. La Lega è una roba seria e noi dobbiamo rispondere colpo su colpo.

Per il Pd il ricambio della classe dirigente è un obiettivo o una grana?

Ho una segreteria di 12 persone, nuovi segretari regionali e, salvo due o tre casi, l’età media è di 40 anni. Tutti nuovi ma non inventati. Il ricambio è un obiettivo ma richiede un po’ di lena. Ma c’è anche un altro aspetto che complica la selezione di nuova classe dirigente. Finora ci siamo occupati più di meccanismi competitivi e selettivi che non di produrre meccanismi coesivi. Credo proprio sia necessario aggiustare il tiro.

Cambierete il meccanismo delle primarie?

Bisogna parlare. Senza partecipazione è difficile produrre innovazione, però non sempre partecipazione è sinonimo di innovazione. E, a volte, l’innovazione ha bisogno anche di un meccanismo di impulso che non sempre può venire dal basso.

Come finiranno le regionali?

Siamo avanti nelle regioni classiche e siamo competitivi in molte altre regioni come Lazio, Campania, Piemonte e Liguria. Su una situazione del genere, soltanto due mesi fa, avrei messo la firma.
Il Sole 24 Ore 10.02.10