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Il voto perduto e l’epidemia del nostro tempo, di Amos Luzzatto

Le sconfitte elettorali vanno chiamate coraggiosamente con il loro nome, senza scusanti e senza colpevolizzare i vincitori che hanno fatto semplicemente il loro mestiere. Allo stesso tempo, la ricerca delle cause della sconfitta non può durare un’intera stagione e neppure può perdersi in un elenco minuzioso degli errori fatti.
Una campagna elettorale fa confrontare una proposta politica con il pubblico che dovrebbe recepirla e possibilmente approvarla. La prima domanda è dunque questa: la proposta non è stata sufficientemente recepita o è stata recepita ma non approvata? Credo personalmente che gli sforzi fatti dal Partito Democratico per far giungere la sua proposta all’elettorato siano stati generosi, continui e tutto sommato efficaci. Potranno darsi miglioramenti e questo è naturale in qualsiasi attività umana. Ma non penso sia questo il problema di fondo.
Va detto che, tutto sommato, il contenuto della proposta non è stato condiviso dalla maggioranza degli elettori. Perché? Si sarebbe potuta immaginare una proposta tale da soddisfare a priori i desideri del “pubblico”? Magari attraverso un preliminare sondaggio d’opinione?
Forse sì, ma questo modo di procedere non sarebbe stato coerente con la dichiarata intenzione di cambiare qualche cosa di sostanziale nella vita degli italiani e nelle loro scelte sociali, economiche, politiche, in ultima analisi culturali. Ne deriva che coloro i quali credono in una visione lungimirante devono sostenere un duro confronto culturale: in tempi necessariamente non brevi. Per indurre a modificare le scelte del cittadino medio non in vista di una gratificazione individuale effimera ma immediata, ma in vista di una migliore qualità della vita – da costruire – anche o soprattutto a beneficio delle future generazioni. Si tratta di un percorso che, in partenza, è pieno di fatiche, amarezze e sconfitte: un percorso tutto in salita.
Convinciamoci che non c’è alternativa. La speranza di un sussulto ideale è parente prossima della speranza nei miracoli. E non regge l’ipotesi che la durezza del presente basti a predisporre “la gente” – quella che soffre, che è insoddisfatta, che ha bisogni elementari che non può affrontare – a comporre una massa riformatrice consapevole, compatta e maggioritaria. Sfortunatamente è più una favola che un’analisi politica.
Esercitare il potere nella società non significa affatto costruire strumenti giuridici, politici, sociali per poter fare gli interessi di una casta ristretta e privilegiata. Significa piuttosto costruire strumenti culturali per acquisire il consenso, globale e radicato, a un determinato stato di cose. Questo potrebbe essere accettato come “il male minore” se non addirittura la cornice nella quale ciascuno, se abbastanza furbo, potrebbe ritagliarsi un angoletto abbastanza comodo.
E allora, che fare? – di che cosa parlare?
Forse dell’epidemia del nostro tempo. Trovandosi incerti fra due domande: «A chi e a che cosa serve questa scelta?» e «Quanto rende questa scelta?» si tende a dare la preferenza alla seconda. Ed allora, solo per fare un esempio fra tanti possibili, diventa preferibile produrre il bio-carburante piuttosto che l’alimento per sfamare una popolazione.
Ma la cultura da sviluppare non è solo quella che opera scelte nuove; del resto fare politica significa soprattutto darsi una scala di scelte. Significa anche convincersi e convincere della necessità di non restare indifferenti a quello che succede fuori delle porte di casa nostra. «Fino a che a noi non tocca». I genocidi si nutrono dell’indifferenza di chi non li vede perché non guarda nella giusta direzione – e questo vale sia per quelli attivi, come abbiamo sperimentato nella Shoà, sia per quelli passivi, come quando lasciamo agonizzare il cosiddetto terzo mondo, perché tanto “sono barbari, primitivi e pigri”, senza pensare che quei barbari stanno pagando per le scelte secolari di noi civili, progrediti e attivi.
Si tratta dunque di promuovere una conoscenza spassionata e farne materia prima per costruire una nuova cultura diffusa.
Conoscere per migliorare, conoscere per aumentare solidarietà e interesse per il nostro prossimo. Conoscere significa rivolgersi a tutte le età, non solo alla doverosa Scuola dell’obbligo. Significa promuovere le facoltà di analisi e di critica, e quindi prospettare in primis una scuola nuova che privilegi questi obbiettivi.
La strada è lunga, tutta in salita. Ma si deve percorrere e si può percorrerla. Manifestare questa volontà trasformerà una sconfitta elettorale in un episodio, non in una specie di Colonne d’Ercole che non si può superare (o superarla non ci sarebbe permesso?).

L’unità 

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