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Violenza alle donne, immigrazione, sicurezza: le opinioni di Miriam Mafai e Lidia Ravera

COSA VOGLIONO LE DONNE, di Miriam Mafai

Le statistiche servono a poco. Può darsi che Roma o Milano siano città più sicure di New York o di Londra, ma chi vive a Roma o a Milano non trae conforto o rassicurazione dalle cifre. E, specie quando si tratti di una donna, ha paura quando, a tarda ora, deve rientrare, sola, a casa. Una giovane donna violentata, pochi giorni fa a Milano, in una zona centrale della città. Un’ altra giovane donna aggredita e violentata all’ uscita di una stazione della metropolitana, a Roma. Sono episodi che ci parlano con la forza dei fatti. E i fatti sono più forti, più convincenti delle statistiche. Abbiamo bisogno di sicurezza. La domanda di sicurezza è emersa nel corso della campagna elettorale come una domanda centrale, ineludibile, a Roma come a Milano come a Napoli. E le risposte che sono state date, da destra come da sinistra, non sono apparse convincenti. Troppi i ritardi e le incertezze nel centrosinistra nella definizione e approvazione del cosiddetto «pacchetto Amato» messo a punto dal ministro dell’ Interno nel novembre scorso, ma troppe le volgarità, le grida e le iniziative di tipo esplicitamente razzista agitate, anche in campagna elettorale dalla Lega. Il tema viene riproposto con spregiudicatezza in questi giorni a Roma, dal candidato della destra, Alemanno. È l’ ultima settimana delle elezioni, quella che precede il ballottaggio. Siamo dunque alla strumentalizzazione a fini elettorali, di un doloroso fatto di cronaca. A Milano nessuno ha indicato il sindaco Letizia Moratti come responsabile di un caso di violenza e stupro avvenuto in piena città. Così nessuno può decentemente accusare l’ ex sindaco di Roma Veltroni per la violenza subita alcuni giorni fa da una giovane donna ad una fermata della metropolitana. Nessuno, salvo Alemanno, nella speranza di conquistare così una manciata di voti che gli consentano di salire al Campidoglio. Ma la questione della sicurezza può davvero essere affrontata in termini puramente propagandistici, come elemento di contrapposizione tra i due schieramenti, quello che ha vinto e quello che ha perso le elezioni? È il problema che si porrà, tra qualche settimana al nuovo presidente del Consiglio e al suo ministro dell’ Interno, un problema che, proprio per la sua gravità, andrebbe affrontato con la massima intelligenza e cercando la massima condivisione nel prossimo Parlamento. Perché questo avvenga sarà necessario evitare gli scogli della demagogia e il rischio delle grida manzoniane all’ insegna del più becero razzismo di cui alcuni sindaci della Lega hanno già dato prova. Sarà, sarebbe necessario, ricercare su un tema così importante e delicato il massimo di consenso nelle aule parlamentari e nella pubblica opinione. Per questo è necessario che anche il Partito Democratico, non più condizionato dai suoi alleati della cosiddetta sinistra radicale, dia prova di realismo, sensibilità e intelligenza politica, uscendo da vecchi schemi e da una vecchia cultura che ha spesso impedito alla sinistra di assumersi tutta intera la sua responsabilità di governo. Il ministro Amato si era già mosso, nei mesi scorsi, nella direzione giusta, sia pure tra mille difficoltà e critiche che gli giungevano anche dagli alleati di governo. Ma il Partito Democratico non può rinunciare alla coerente difesa della legalità, e della sicurezza dei cittadini. In caso contrario la difesa della legalità e della sicurezza rischia di essere affidata a una destra dai profili spesso violenti e razzisti. E, quindi, deve cambiare fisionomia. Una sinistra di governo, liberata dalle scorie di una vecchia cultura e di vecchie ideologie che impediscono di guardare in faccia la realtà, dovrà farsi pieno carico del problema della sicurezza dei cittadini. Già molti sindaci di sinistra, del resto, da Cofferati a Bologna a Zanonato a Padova hanno fatto di questo problema una loro priorità. Si sono mossi con coraggio e coerenza, sfidando le critiche che sono loro giunte anche da una parte del loro schieramento. Mi sembra si sia mosso in questa direzione anche Francesco Rutelli quando ha proposto, tra molte altre misure, anche l’ adozione, da parte delle donne che lo desiderino, di un “braccialetto” che consenta di segnalare immediatamente a un centro antiviolenza un eventuale pericolo. Qualunque elemento (sia un bracciale, una spilla o un semplice badge da tenere in tasca) che favorisca una maggiore sicurezza per chi si sente in pericolo non può che essere valutato in modo positivo. Ma nemmeno questa modesta proposta ha trovato il consenso di Alemanno: un’ altra prova, se ne fosse stato bisogno, del fatto che il candidato del centrodestra non si preoccupa della sicurezza dei cittadini e delle misure, anche le più semplici a loro tutela, ma intende invece agitare il problema della sicurezza per conquistare se possibile, da qui a domenica, qualche voto in più. Repubblica — 22 aprile 2008

L’USO POLITICO DELLA PAURA, di Lidia Ravera

Un’altra ragazza vittima della violenza di un disgraziato. Uno che voleva imporre il suo sesso, uno che voleva fare male. Ioan Rus, detto «il fantasma» perché non si sa bene dove abitava e di che cosa viveva. Ioan Rus, una faccia da foto segnaletica, violenta e vagamente ebete. Ioan Rus, con sostanziosi precedenti penali, tre volte condannato e incarcerato nel suo Paese, la Romania. E la ragazza? Anche lei straniera, di colore, di buona famiglia, una che frequenta un master in economia, che è venuta a Roma per studiare, non per cercare di sopravvivere. La scena: la solita stazione buia, la solita periferia occupata da poveri, senza sovrastrutture adeguate a renderla davvero abitabile, una sorta di Zeta-erre-i (zona a rischio illimitato). Le chiacchiere del giorno dopo: le solite. La sicurezza, i rumeni, gli immigrati.

Le cifre: «Il 35% dei reati in Italia sono stati commessi da cittadini stranieri», «nei primi mesi del 2007 sono stati arrestati 32.468 cittadini rumeni». Moltiplicatore di chiacchiere: il ballottaggio per l’elezione del sindaco di Roma. Alemanno usa la vicenda per attaccare Veltroni, predecessore e sponsor di Rutelli: «dobbiamo liberarci dei cretini al comando». Rutelli replica, ricordando che Berlusconi “sanò” 141 mila rumeni. Chi sono, allora, «i cretini al comando?». Il centro sinistra aveva proposto un braccialetto luminoso, le ragazze lo tengono al polso e serve per chiamare soccorso. Alemanno difende le ragazze dalla “umiliazione” di dover indossare questa manetta salvavita ed è un vero peccato, perché a me, invece, sembra una buona idea, quantomeno un’idea nella linea giusta, che è quella di difendere le donne, non di bruciare in piazza i rumeni. I rumeni: sono la comunità straniera più numerosa, oggi, in Italia. Sono una società nella società. La crescita numerica porta con sé una maggiore percentuale di crimini, una maggiore necessità di prevenzione. Nella povertà, nel degrado, nell’isolamento culturale e sociale, più facilmente le personalità più fragili vengono contaminate dalla violenza. È vero per i rumeni, per i senegalesi, per gli egiziani, per i polacchi… è vero anche per gli italiani.

I rumeni non sono peggio degli altri: molti sono qui da tanti anni, lavorano duro, se ne hanno l’opportunità , lavorano come noi italiani non ci sognamo più di lavorare dai tempi difficili del dopoguerra. Le femmine allevano i nostri figli, curano i nostri vecchi, puliscono le nostre case, lavano i nostri panni, i maschi costruiscono ristrutturano dipingono le nostre case, curano i terrazzi, i giardini. Sono gente brava e operosa, con una sapienza manuale e uno spirito di servizio ormai molto difficili da trovare fra gli italiani. Non oso neppure pensare a che cosa sarebbero le nostre vite senza l’aiuto dei rumeni e delle rumene. Perché dobbiamo sempre minacciarli di espulsione? Non si possono più espellere gli stranieri. Noi abbiamo bisogno di loro e loro hanno bisogno di noi. Il mondo ormai va così, nessuno può arroccarsi nel Paese dove è nato e chiudere le porte. L’Italia, piaccia o no alla Lega, è, ormai, un Paese multietnico. La brutta storia da cui prende spunto questa riflessione è una storia multietnica. La vittima è una ragazza africana, che è venuta da noi a studiare. Il colpevole è un uomo dell’Europa dell’est, che è venuto da noi perché a casa sua non riusciva a vivere. Una era una brava ragazza, l’altro un mascalzone. E mascalzoni ce ne sono parecchi. La violenza contro le donne è in crescita esponenziale. È colpa dei rumeni? O è colpa di una subcultura diffusa che alle donne manca continuamente di rispetto. Le continue, reiterate, ossessive esposizioni di corpi femminili a scopo commerciale. Il mercato delle vacche che, a cadenza fissa, affiora da intercettazioni e scandali fra vip, quello scambio di favori che passa attraverso la fornitura di sesso, di carni femminili, di povertà morali e fioriture giovanili. Le labbra, le pance, le tette che ci si parano davanti come un arredo urbano, dalle fiancate degli autobus, dai cartelloni, dalle edicole… e, per contro, il silenzio femminile, lo scarso ascolto, la scarsa presenza di parole femminili autorevoli in televisione, in politica. La fissazione del sesso che ha sostituito, per puro consumismo, la repressione di cinquant’anni fa, sempre senza offrire alle donne una vera dignità, una parità sostanziale, che potrebbe, forse, incominciare a disarmare tante mani protese a prendersi con la forza quello che una ragazza non vuole dare…tutto questo non viene mai considerato. Una studentessa si prende una coltellata nel fianco, patisce l’angoscia della violenza carnale e il dibattito, indignazioni più proponimenti, verte tutto sulla necessità di cacciare i rumeni, come se bastasse per consentire alle ragazze la tranquillità di rincasare tardi, di attraversare una strada buia, di muoversi liberamente, come è suo diritto, in una città come Roma, capitale di un paese civile.Gli italiani hanno paura, si sentono minacciati dalle povertà con cui un’ immigrazione sempre più massiccia ci impone di convivere. La paura viene strumentalizzata da chi vuole una società arroccata in difesa, armata, orientata al rifiuto dell’altro, intollerante e non solidale. Io credo che la paura vada rispettata: spesso sono i più socialmente deboli fra gli italiani, quelli che ne soffrono. Mi piacerebbe però che la paura diventasse il carburante per mettere in moto la macchina del welfare, delle infrastrutture, a sostegno di chi vuole una società più giusta, dove, magari chiedendo ai più ricchi e ai più forti di rinunciare a qualcosa, i più deboli fra gli italiani e i migranti, venissero aiutati a trovare un posto sicuro per vivere. L’Unità, 22 aprile 2008