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“25 aprile: a scuola di democrazia”

Intervento dell’on. Manuela Ghizzoni alla celebrazione della Festa della Liberazione a Mirandola.

«Ritrovarci oggi, 25 aprile, non significa semplicemente celebrare – come è giusto che sia – l’evento fondativo della nostra storia repubblicana.

E nemmeno si esaurisce nel ricordare il buco nero rappresentato dal nazifascismo, dalla tragedia della II Guerra Mondiale e dall’orrore della Shoah e, contemporaneamente, nel rammentare quanti ebbero il coraggio di opporsi all’occupazione e alla Repubblica di Salò, come i gappisti del distaccamente Bruni e i partigiani della divisione Sap Remo e nell’onorare quanti persero la vita in combattimento o per atroce rappresaglia, come accadde ai 5 giovani mirandolesi impiccati per l’uccisione di un soldato tedesco.

Ma essere qui oggi, significa anche riflettere sulle radici della nostra democrazia e proprio da qui voglio partire per tirare quel filo che connette la Lotta di Liberazione alla Costituzione, alle Istituzioni repubblicane e, soprattutto, alla nostra vita democratica, di pace e in libertà.

La sconfitta del fascismo ha infatti segnato l’inizio di una nuova epoca, l’affermazione della democrazia come sistema ideale di convivenza civile, in grado di coniugare libertà e uguaglianza, interesse privato e bene comune. Ciò che noi italiani conquistammo allora, grazie agli eserciti alleati e ai patrioti della Resistenza, non fu solo la liberazione dall’Occupazione nazifascista; conquistammo soprattutto la possibilità di creare una nuova vita nazionale, una nuova morale nazionale, basata sulla dignità umana, su un inedito modo di intendere le relazioni tra individui e l’organizzazione della società. Esattamente come è stato scritto nella nostra Carta costituzionale, che quest’anno taglia il traguardo dei sessant’anni di vita.

Aveva ben ragione, a questo proposito, Piero Calamandrei a sostenere che il pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione andava fatto non negli archivi, ma ovunque i partigiani caddero, furono imprigionati o impiccati. Dovunque fosse morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità: lì è nata la nostra Costituzione.

La Resistenza combattuta dai partigiani; quella dei militari, abbandonati a loro stessi dopo l’8 settembre, trucidati come accadde a Cefalonia o deportati in Germania non come prigionieri di guerra ma come traditori; quella di sabotaggio e degli scioperi esercitata degli operai; quella di sostegno logistico e organizzativo alle formazioni partigiane intrapresa dalle donne, quando non divennero loro stesse combattenti; quella attuata dai tanti parroci e religiosi e dai tanti civili che vollero dare aiuto agli antifascisti e agli ebrei perseguitati, come Don Sala e Odoardo Focherini, che abbiamo onorato poco fa: tutte queste Resistenze ebbero dunque come esito conclusivo l’instaurazione di un regime democratico e di un nuovo assetto istituzionale, politico e sociale, nel quale tutto il popolo può effettivamente, liberamente e responsabilmente prendere parte alle decisioni collettive.

Quando parliamo di Resistenza, quando celebriamo il 25 aprile come anniversario della Liberazione, quando ricordiamo il sacrificio dei partigiani e dei tanti che ebbero il coraggio di schierarsi e di combattere contro il nazifascismo, allora noi non rievochiamo semplicemente un passato lontano, ma parliamo del presente, dell’Italia di oggi. E soprattutto parliamo dei fondamenti della democrazia italiana scritti nella Costituzione, che non si esaurisce in un elenco di precetti, perché essa non è semplicemente la carta delle «regole»: è soprattutto la carta dei «valori» identitari della nostra Nazione e della nostra convivenza civile.

È bene qui ricordare il lavoro straordinario svolto dai deputati dell’Assemblea costituente e dai partiti che – allora assai meglio di oggi e nonostante le diverse formazioni e impostazioni culturali, spesso antitetiche – furono soggetti attivi della ricostruzione materiale e morale del Paese e seppero interpretare l’istanza avanzata dal popolo italiano di avere una Costituzione unificante, una Costituzione che racchiudesse un patto pacificatore. I deputati dell’Assemblea riuscirono infatti in quello che è stato definito il “miracolo costituente”, cioè riuscirono a “ricercare – per dirla con le parole di Togliatti – quell’unità che è necessaria per poter fare la costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la costituzione di tutta la nazione”. Furono in grado di confluire verso un terreno comune perché si riconobbero in alcuni principi considerati imprescindibili, che erano stati indicati loro dalla tragica esperienza della dittatura fascista e della guerra e poi dalla sperimentazione della Lotta di Liberazione: i valori di solidarietà, di libertà, di uguaglianza, di giustizia, di convivenza civile. Insomma, i valori del vivere democratico. E quel carattere di durevolezza che contraddistingue la nostra Costituzione non deriva solo dall’essere un testo profondamente meditato, discende proprio dall’essere stato largamente condiviso: per questo motivo tutti noi, in esso, ci riconosciamo.

Pertanto, credo vadano fermamente condannati i tentativi di banalizzare la data del 25 aprile, o di considerarla priva di significato o, nel peggiore dei casi, di ritenerla patrimonio esclusivo di una sola parte politica, così da delegittimarne il lascito diretto, cioè la Costituzione. Eppure, a più di sessant’anni di distanza, ci si aspetterebbe uno sguardo più distaccato e obiettivo su quella stagione della nostra storia nazionale. Le nuove acquisizioni della ricerca storica – avviata anche dagli stessi Istituti storici della Resistenza – e la non più differibile necessità di sottrarre le valutazioni sulla Resistenza dai condizionamenti della propaganda, potrebbero contribuire alla formulazione di giudizi più sereni, ma soprattutto esenti da un uso politico della storia che ha finora pregiudicato sia la verità, sia la prospettiva di una democrazia compiuta. E invece siamo ancora costretti a registrare la mai sopita tentazione di rimettere in discussione verità storiche che credevamo acquisite una volta per tutte, la velleità reiterata di riscrivere la Storia per piegarla alle convenienza di parte del presente.

Permettetemi di raccontarvi un episodio, che trovo particolarmente emblematico. Poco più di un anno fa, in Commissione Cultura della Camera, presentai e discutemmo una risoluzione che impegnava il Governo a sollecitare tutti i mezzi di informazione ad intraprendere campagne contro la falsificazione e la negazione dello sterminio degli ebrei e degli oppositori al nazismo; a sollecitare nelle scuole lo studio approfondito e critico del Novecento; a sostenere, anche finanziariamente, i luoghi della memoria della deportazione politica, razziale e militare. La risoluzione fu approvata a maggioranza e non all’unanimità, tra le proteste del centrodestra. Sapete perché? Perché in un passaggio del testo si faceva riferimento alla lotta di Liberazione contro il nazifascismo come atto fondante della democrazia repubblicana.

Purtroppo, non si tratta di un episodio isolato, o tanto meno estemporaneo, bensì di una cultura diffusa che oggi, nel mutato clima politico, trova nuovo alimento.

Il divieto di eseguire “Bella ciao”, imposto alla banda comunale dal sindaco di Alghero con la motivazione che sarebbe una canzone di parte (senza sapere che divenne inno della Resistenza solo negli anni ’50, perché non era un canto comunista), o la decisione del sindaco di Milano di non partecipare alle celebrazioni del 25 aprile, o la richiesta del senatore Gustavo Selva di abolire la festa del 25 aprile in quanto suggello di una Storia non condivisa o ancora l’invito del senatore Marcello Dell’Utri a riscrivere i manuali di storia perché condizionati dalla retorica della Resistenza: sono tutti segnali inequivocabili di un attacco politico e culturale – condotto in modi e stili diversi – contro uno dei pilastri dell’Italia Repubblicana. L’ennesima prova di spaccare il Paese e spezzarne la Storia, censurando i capitoli principali del racconto che narra della nascita della Repubblica dalla Resistenza e del riscatto della Nazione dalla vergogna del fascismo.

Fascismo che, è bene ricordarlo, non fu solo complice della barbarie nazista ma fu soprattutto una dittatura, che abolì le libertà individuali e associative e obliterò la democrazia rappresentativa; che mandò gli oppositori politici in carcere e al confino, dopo processi farsa celebrati in tribunali speciali; una dittatura che macchiò l’Itlia dell’ignominia delle leggi razziali e portò il Paese ad affontare una guerra tanto velleitaria quanto rovinosa.

E allora, mai abbassare la guardia contro i tentativi di riscrivere la storia facendo piazza pulita della Resistenza. I tentativi spregiudicati, quanto faziosi, di condizionare politicamente la “memoria pubblica” tendono ad un pericoloso scambio di ruoli e di parti, a confondere le responsabilità, a mettere sullo stesso piano la lotta partigiana per la democrazia e la guerra del fascismo repubblichino. Non è possibile alcun relativismo su quella pagina di storia. Furono i Repubblichini a combattere dalla parte sbagliata, complici dei nazisti non solo nella deportazione degli ebrei e degli oppositori al Regime, ma anche nelle efferate stragi di civili che così duramente segnarono la parte conclusiva dell’Occupazione, complici nella cosiddetta “guerra ai civili”, culminata con il massacro più grave della storia d’Italia, i 770 morti di Marzabotto.

Le parole possono avere destini diversi: consumarsi nella retorica e svuotarsi di senso oppure mantenersi vive nel legame con il loro contenuto materiale.

A chi vorrebbe liquidare la Resistenza come mitologia o archeologia, noi rispondiamo che questo Paese – e tutto ciò che gli italiani hanno costruito e realizzato in oltre 60 anni di libertà – ha il suo atto fondativo in quella stagione di lotta e di passione civile. Pertanto dobbiamo scongiurare la perdita di memoria collettiva e sventare qualsiasi prova di archiviare questo capitolo di storia che non è patrimonio di una parte politica, ma della Nazione nel suo insieme. Opporsi alla smemoratezza vuol dire rinnovare giorno dopo giorno l’attualità di quell’etica civile – fondata sui valori della pace, della libertà e della giustizia – che spinse migliaia di uomini e donne a ribellarsi al Regime: un’etica civile che Luigi Meneghello, l’autore de I Piccoli maestri, definì come “la perfetta coincidenza tra ciò che volevi fare con ciò che dovevi fare”. Contrastare la smemoratezza significa educare alla pratica quotidiana della democrazia; promuovere la conoscenza di un sistema politico e istituzionale che è anche modello di civiltà, punto di convergenza delle grandi tradizioni di pensiero dell’Occidente.

Non solo tra i giovani, ma anche tra i tanti cittadini stranieri che oggi arrivano nel nostro Paese in cerca di lavoro, di benessere, di libertà per loro e per i loro figli. Anche a loro dobbiamo proporre, nel rispetto delle tradizioni e delle culture, il sistema di valori nato per garantire i diritti universali di uomini e donne e che trova nella Carta costituzionale italiana una delle sue massime espressioni.

D’altra parte, dobbiamo guardarci da un altro rischio, quello di ridurre il passato a retorica, a vuota celebrazione, come già paventava Giorgio Amendola più di 30 anni fa. Anche questa è, a suo modo, una forma di oblio perché nella rievocazione ridotta a cerimonia e a sventolìo di bandiere va persa la carica vitale degli ideali, la passione di uomini e donne in carne e ossa, il contenuto materiale di una Costituzione che porta il marchio indelebile della Resistenza.

Siamo vissuti per molto tempo nell’illusione che la virtù democratica potesse svilupparsi da sola: oggi sappiamo che non è così, purtroppo. L’assuefazione alla democrazia può portare alla noia e persino al rigetto, soprattutto se compare qualcuno che promette di più, più facilmente e rapidamente di quanto non possa ottenersi attraverso le complesse e faticose regole della democrazia. L’antidoto è la crescita di un’opinione pubblica consapevole perché la democrazia, a differenza di tutte le altre forme di governo, non può farne a meno.

Il compito che oggi ci troviamo di fronte è dunque quello di educare alla democrazia, alle sue ragioni e alle sue origini; costruire un ponte tra generazioni (e tra culture) affinché le motivazioni e l’etica civile che animarono i Resistenti di allora, soprattutto giovani, siano comprese dai giovani d’oggi e ne condividano la tensione per la dignità umana, la giustizia, il progresso sociale. Si tratta di un’etica appropriata e attuale anche per l’Italia contemporanea, dove la disuguaglianza sociale, i diritti negati, la mafia, la disoccupazione, la povertà, l’ingiustizia e l’ostilità per le diversità culturali e religiose rappresentano ancora ostacoli impegnativi alla piena attuazione della nostra democrazia.

Ostacoli che possono essere rimossi a condizione che in noi, ma soprattutto nei giovani, sia forte la capacità di indignarsi, sia forte il desiderio di mettersi in gioco per il bene comune. Resta attualissimo il messaggio di Giacomo Rivi, partigiano che poche ore prima di essere ucciso a soli diciassette anni in piazza Grande a Modena scriveva: “la cosa pubblica è in noi stessi. Badate che questo è successo – e si riferiva al disastro della guerra e del fascismo – perché non ne avete più voluto sapere”.

A noi spetta il compito di attuare l’insegnamento di quel giovane piccolo maestro, facendo in modo che la scuola e la comunità educante, rappresentata dalla società intera, mettano i ragazzi nelle condizioni di essere forti, di “voler sapere” che è la prima assunzione di responsabilità verso la società, verso gli altri, e anche di rifiutare, di opporsi, di indignarsi.

Ma educare alla cittadinanza non è impegno di poco conto nell’Italia di oggi e, badate, non è un problema delle sole scuole di Napoli, come qualcuno potrebbe pensare dopo che sono stati resi pubblici alcuni temi scritti da ragazzini napoletani, che in qualche modo legittimano la camorra.

Purtroppo, nella società contemporanea la cultura dell’illegalità si diffonde sempre più, mentre l’attribuzione di senso alle regole fondamentali della convivenza civile si affievolisce. Così, troppo spesso, la scuola si trova a contrastare, in solitudine, codici comportamentali, sistemi di riferimento e disvalori sempre più spesso assunti dai giovani e dalle loro famiglie come modelli di vita quotidiana.

Il lavoro da compiere è tanto e urgente: il rischio che corriamo non è solo la perdita di credibilità nelle istituzioni e nello Stato, è piuttosto lo smarrimento dei valori di cui si sostanzia la coscienza dei singoli e su cui si basa la coesione sociale, lo spirito civico. Si rischia cioè di smarrire la meta, scritta nell’art. 2 della Costituzione, a cui deve tendere il progresso della società italiana, nelle sue componenti istitutzionali e di popolo: la garanzia dei diritti inviolabili che si salda con l’adempimento dei doveri inderogabili secondo il principio di solidarietà. Esattamente come fecero coloro che scelsero la Resistenza opponendosi al nazifascismo.

La giornata odierna, quindi, non deve essere solo dedicata al ricordo, ma al futuro, perché la memoria dei caduti della Resistenza e il loro insegnamento ci indicano esattamente l’agenda della nostra azione prossima, che dovrà essere dedicata alla giustizia e alla coesione sociale, alla solidarietà, al rispetto della dignità umana e all’attuazione della Costituzione.

Pertanto, il ricordo della Resistenza non è solo culto della memoria ma spinta al rinnovamento politico e civile del Paese, un riferimento sicuro nel tempo incerto che stiamo attraversando.»

 

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