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«Prendiamola sul serio, una volta per tutte», a cura di Maite Bulgari

E’ curioso come l’argomento della disparità di genere in Italia provochi ancora una sorta di noiosa insofferenza quando in realtà c’è da preoccuparsi: i tassi di occupazione femminili ci vedono al penultimo posto tra i paesi europei, dietro di noi solo Malta.

In Italia lavora solo il 46% delle donne; quasi sette milioni di italiane in età lavorativa sono fuori del mercato. La media europea si aggira sul 57,5%. Al Sud la situazione peggiora e solo lavora un 34,7%. Se i dati fossero riferiti all’impiego maschile il risultato sarebbe considerato una emergenza.

Le cifre si aggravano se analizziamo il numero di donne che accedono ai livelli di responsabilità e di inquadramento più importanti. Secondo uno studio dell’International Labour Organization, negli USA le donne nei posti di potere sono il 45%, in UK il 33%, in Francia il 30% . In Italia il livello di inserimento raggiunge appena il 18%. Solo il 5% dei consiglieri dei Cda delle grande aziende sono donne. Nel settore della politica la situazione è ancora più sintomatica. Sono quattro le ministre -solo due con portafoglio- in un governo di 21 membri. Nel nuovo parlamento solo un 21% sono deputate e 17% senatrici. Stanno peggio di noi solo a Cipro, Egitto e Corea del Sud. E non solo. Secondo i dati della Presidenza del Consiglio, alle donne è destinato uno stipendio inferiore tra il 23% e il 30% rispetto a quello di un collega uomo.

C’e qualcosa di inspiegabile però se si pensa che a scuola, nell’università e nei concorsi, le votazioni migliori sono delle studentesse. Su mille donne 694 conseguono la maturità, mentre fra gli uomini solo 566. Il 55% dei laureati con votazione superiore a 106/110 sono donne, la percentuale si ripete anche tra gli studenti di ingegneria, facoltà “storicamente” a forte connotazione maschile. Con questi dati viene da pensare che i processi di valutazione e promozione non sono tanto trasparenti o di merito.

E’ curioso però come una realtà così ingiusta non riesce a trovare voce. Sono i giornali e gli analisti stranieri gli unici a esserne sorpresi delle cifre e soprattutto dell’apatia generale. La questione rosa non può essere trattata come se fosse una rivendicazione capricciosa; oggi è diventata una questione importante di produttività e crescita economica. La partecipazione e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro può compensare la diminuzione prevista della popolazione attiva. La parità uomini-donne è riconosciuta oggi in tutto il mondo occidentale come motore di crescita e fattore di sviluppo economico.

Tradizionalmente si è sempre pensato che a spiegare questi dati sia l’impegno naturale della donna nella cura della famiglia. Infatti, il nostro è uno dei paesi europei dove meno donne tornano a lavorare dopo la maternità. Risulta comunque paradossale che l’Italia abbia un tasso di natalità tra i più bassi di Europa (1, 24 contro il 2,4 degli Usa o il 1,47 della media europea). Dagli analisi risulta che le donne quando non sentono il proprio futuro garantito, non fanno figli. Questo spiega perché il tasso di natalità sia più alto nei paesi dove le donne lavorano di più – come USA o Svezia – mentre è più basso in Giappone o in Italia, dove le donne lavorano di meno. Invece è un carico pesante che la famiglia e la casa siano un compito quasi esclusivo delle donne: il 77,7 % del lavoro domestico – lavare, stirare, fare la spesa, allevare i figli, prendersi cura di anziani e malati, ecc – viene svolto dalle donne che dedicano cinque ore della loro giornata alle faccende domestiche, mentre gli uomini al massimo un’ora. Un lavoro non riconosciuto e non sostenuto da politiche efficaci.

Figli e casa non esauriscono però tutte le cause. Gli ultimi studi realizzati sul mercato del lavoro americano stabiliscono cinque ragioni che ostacolano in USA l’avanzamento del lavoro femminile: gli stereotipi e i preconcetti sulle capacità e ruoli delle donne; l’assenza di modelli femminili di successo; la scarsa esperienza nei ruoli di leadership; l’impegno familiare e l’assenza di mentoring.

Da noi, uno dei motivi principali per cui le risorse femminile sono sottovalutate è la scarsa cultura del merito. La logica tradizionale del corporativismo e una sorta di gerontocrazia solitamente maschile che non riconosce le donne come le candidate più appropriate. Come attenuante è molto diffusa l’idea che “quelle più brave comunque ce la fanno”. Ma bisogna essere davvero determinate per arrivare e restarci. Viene da domandarsi perché. Perché le donne devono essere “le più brave” quando gli uomini possono non esserlo? I parametri di misura sono discriminanti. Una maggior presenza delle donne nelle organizzazioni di lavoro favorirebbe la rimozione di vecchie logiche ormai strette che soffocano i rapporti di lavoro e le strutture sociali.

La cultura dei media non favorisce nemmeno l’auspicabile cambiamento. Basta vedere il modello di donna che trionfa in tv: il tipo più rappresentano è quello delle donne spettacolo (31,5%), e delle vittime della cronaca (28,4%.). Scollature traboccanti, minigonne da capogiro, vallette seminude, veline prosperose, sguardi maliziosi, spot dominati da allusioni sessuali gratuite ….fanno parte naturale del nostro quotidiano. Ma nessuno protesta o dice niente, anzi, si rischia facilmente l’accusa di bigotteria. Nessuno sembra preoccuparsi dell’uso improprio che si fa della donna in tv o nella pubblicità come mero oggetto di desiderio. Basta pensare la considerazione che il nostro presidente del consiglio, conosciuto galantuomo, professa per le donne: “bambine da svezzare”; “le donne di destra sono più belle che quelle della sinistra”; “bisogna investire in Italia perché le nostre segretarie hanno le gambe più belle”; ho dovuto usare le mie arti di playboy con la presidente finlandese; il governo di Zapatero è “troppo rosa…avrà difficoltà a governare…del resto se l’è voluta lui” o più semplicemente le ragazze che servono a “sollevare la morale del capo” Certo, tutti sappiamo che Berlusconi è così, gli piace scherzare. Invece sarebbe opportuno scherzare di meno e cominciare a valorizzare per davvero le eccellenti risorse femminili di questo paese. Lui ha deciso di cominciare, ironia del destino, nominando una sua ex velina alla guida del ministero delle Pari Opportunità. Non lo prendiamo per uno dei suoi scherzi, ci mancherebbe altro che una velina non possa fare la ministro! Il problema è che in questo caso la ministra avrà un compito doppiamente gravoso.

E’ imprescindibile applicare una politica chiara e decisa sulle quote di rappresentazione. Non si può continuare a pensare che i posti di rilievo devono essere “concessi” alle donne da un uomo gerarchicamente superiore perché sono state brave o più banalmente perché la donna gli piace. Non è altro che un meccanismo di ricatto e omertà. I posti di responsabilità e comando appartengono alle donne per diritto proprio e per dovere verso la società cui appartengono. Questo modello pseudo paternalista di padre-padrone deve finire. La questione femminile non è più solo una questione di genere.

Nel summit di Lisbona del 2000, i paesi europei decisero un piano sull’occupazione femminile intesa come questione economica. L’obbiettivo era di raggiungere una quota del 60% nel 2010. Il traguardo oramai è irraggiungibile per l’Italia, ma è urgente portare avanti le linee del Consiglio Europeo che, nella primavera del 2006, stabiliva come prioritaria: l’eliminazione degli scarti tra donne e uomini nel mercato del lavoro (pari indipendenza economica, protezione sociale, eliminazione delle cause di segregazione che danno origine a scelte stereotipate di formazione e occupazione); l’agevolazione dell’equilibrio tra donne e uomini nella suddivisione delle responsabilità private e familiari; promozione alla pari della rappresentanza nel processo decisionale; l’eliminazione degli stereotipi di genere nella società e infine lotta contro la violenza di genere (in Italia quasi sette milioni di donne, il 32% tra i 16 e i 60 anni, sono state oggetto di violenza fisica o sessuale nella loro vita).

Occorrono misure per promuovere i congedi parentali a uomini e donne, orari flessibili e misure per conciliare vita professionale e privata; il sistema fiscale non può stabilire come incentivo il quoziente familiare che non favorisce l’occupazione per le donne; i servizi per l’infanzia sono scarsi e troppo onerosi, bisogna incrementare l’offerta degli asili nido e sviluppare l’assistenza alle persone non autosufficienti; e tante altre politiche di genere destinate a sostenere e promuovere una risorsa di ricchezza fondamentale per la nostra società.

Mentre nel resto del mondo la crescita economica sarà guidata dal lavoro femminile nel programma del Pdl le questioni di genere sono visibilmente marginali. Se Berlusconi non la vuole considerare dal punto di vista sociale, la prenda almeno come una questione economica.

da partitodemocratico.it