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«Testamento biologico, il messaggio di Modena», di Gilda Ferrando*

Anche le date contano. A distanza di 30 anni da quel 13 maggio 1978 in cui venne approvata la legge Basaglia, il 13 maggio 2008 il Giudice tutelare del Tribunale di Modena emana un decreto che costituisce un altro importante passo nel riconoscimento dei diritti e delle libertà della persona. C’è un filo rosso che unisce la legge di allora al provvedimento di oggi, attraverso altre decisioni importanti, come i casi Englaro e Welby.

Il decreto di Modena – va chiarito subito – non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, vale a dire con la richiesta da parte di un malato senza speranza, afflitto da intollerabili sofferenze, di porre fine alla propria vita mediante la somministrazione di un farmaco letale.
Riguarda invece il diritto del malato di rifiutare trattamenti medici, riguarda i modi in cui garantire questo diritto quando il paziente non sia più in grado di esprimere la propria volontà.

La signora Vincenza, affetta da Sclerosi laterale Amiotrofica (Sla), ormai in condizione di grave insufficienza respiratoria, manifesta al marito, ai suoi quattro figli adulti e ai medici la propria volontà di non essere sottoposta a trattamenti di rianimazione invasivi, compresa la tracheostomia. Il fatto è che il sopraggiungere di una crisi respiratoria grave determina una perdita della coscienza dovuta all’insufficiente afflusso di ossigeno al cervello. È dunque necessario che ci sia qualcuno per dar voce al paziente che non è più in grado di farlo personalmente.
Ci sono differenze tra questo e i casi analoghi che lo hanno preceduto. Rispetto al caso Welby si chiede al medico di non attaccare il respiratore, non di spegnerlo. Rispetto al caso della signora Maria – la paziente diabetica che rifiutò l’amputazione dell’arto – la volontà deve essere fatta valere dopo la perdita della coscienza. Rispetto al caso Englaro – la giovane donna in stato vegetativo permanente – è stato espresso un rifiuto esplicito e formale prima della perdita di coscienza. Pur nella varietà dei casi, in tutti è stato riconosciuto il diritto di rifiutare le cure o di interromperle.

La decisione del giudice tutelare di Modena si inscrive pienamente nel quadro di principi e regole previsti dal nostro ordinamento.
Quanto ai principi, dagli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione si evince chiaramente che nessun trattamento medico può essere effettuato senza e, a maggior ragione, contro il consenso del paziente. Anche la Carta di Nizza, ora parte del Trattato europeo firmato a Lisbona, impone in modo esplicito il rispetto del «consenso libero e informato della persona interessata» (art. 3). Nell’ottobre scorso la Corte di Cassazione ha fatto applicazione di questi principi nel caso Englaro. In quell’occasione la Corte chiarì che il paziente cosciente e consapevole può legittimamente rifiutare anche un trattamento di sostegno vitale. Si tratta di un diritto fondamentale della persona, espressione di quella inviolabilità fisica che costituisce il nucleo essenziale della libertà personale. Un diritto, dunque, che deve essere garantito incondizionatamente e contro il quale non vale invocare né lo “stato di necessità” – al quale il medico può appellarsi, ma solo in situazioni d’urgenza, e se il paziente è incosciente – né un dovere di curarsi che può talvolta farsi valere sul piano dell’etica, ma non su quello del diritto.

Quanto agli strumenti per dare attuazione a questo diritto fondamentale, nel 2004 è stata introdotta nel nostro ordinamento una nuova figura di protezione dei soggetti deboli, l’amministratore di sostegno, che ha la funzione di assistere ogni «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi». Si tratta di una risposta, sul piano degli istituti civilistici, alla nuova attenzione che il diritto riserva alle situazioni di debolezza e fragilità e che ha avuto nella legge Basaglia uno dei suoi momenti più alti.
Rispetto al vecchio modello dell’interdizione, l’amministrazione di sostegno intende garantire un maggior rispetto dell’autonomia del disabile ed una maggior attenzione ai profili di cura dei suoi interessi personali. Coerente con questa impostazione è la possibilità che la designazione della persona cui affidare l’incarico sia effettuata dallo stesso interessato «in previsione della propria eventuale futura incapacità».
La legge non lo dice espressamente, ma appare coerente con il suo impianto complessivo ritenere che a questa persona di fiducia il malato possa dare anche direttive anticipate sulle decisioni che più gli stanno a cuore, specie quelle in materia sanitaria. È quanto afferma il giudice tutelare di Modena, nel nominare amministratore di sostegno il marito della donna con lo specifico compito di dare attuazione alla volontà «lucidamente e inequivocabilmente espressa dall’interessata», che non le venga praticata la ventilazione forzata e la tracheostomia «all’atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l’evolversi della malattia imponesse la specifica terapia salvifica».

Questo provvedimento dimostra, una volta di più, che già esistono nel nostro sistema gli strumenti per dare attuazione ai diritti fondamentali della persona. Il fatto che il Parlamento non riesca a fare (buone) leggi sui temi “eticamente sensibili” non impedisce ai giudici di utilizzare le risorse già disponibili. Una legge, se verrà approvata, potrà disciplinare in modo più analitico le direttive anticipate, ma, questo è il messaggio importante che ci viene da Modena, già oggi ciascuno di noi è un po’ più libero, un po’ più padrone di se stesso.

*Università di Genova, Consulta di Bioetica

da L’Unità, 30 maggio 2008

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