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60° DELLA COSTITUZIONE ITALIANA. DIRITTI AL LAVORO

Nella splendida cornice dell’Auditorium S. Rocco di Carpi (Mo), si è tenuto, lo scorso 13 giugno, un incontro in occasione del 60° della Costituzione Italiana promosso dall’Assessorato alle politiche culturali del Comune in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio e il Comitato per la memoria. Alla iniziativa hanno partecipato il Sindaco Enrico Campedelli, Guglielmo Epifani segretario generale Cgil e Giovanni Taurasi dell’Istituto Storico di Modena.

Il ruolo del diritto al lavoro così ben declinato nella Carta Costituzionale stride fortemente con la realtà di questo tempo in cui la sicurezza sui luoghi di lavoro e una scarsa tutela dei lavoratori precari ci portano a rivalutare lo sforzo, la lungimiranza e la concretezza dei Padri e delle Madri costituenti.

Pubblichiamo l’intervento  di Giovanni Taurasi che offre parecchi spunti di riflessione storica e sociologica sul ruolo del Sindacato e sulla centralità del lavoro.

“Il mio compito è quello di tentare un’introduzione storica che, a partire dalla vicenda locale sino a quella nazionale, ci riporti in qualche modo a quella straordinaria stagione che si aprì con l’elezione dell’Assemblea Costituente il 2 giugno 1946 e si chiuse con la promulgazione della Carta Costituzionale 60 anni fa, provando ad evidenziare quale fu il ruolo fondamentale svolto dal sindacato e dal mondo del lavoro in quel passaggio cruciale della nostra storia.

Naturalmente, quando si riflette sulla storia, soprattutto se contemporanea, si cercano analogie con il presente, anche se si parla di epoche difficilmente paragonabili. Proverò dunque ad offrire qualche spunto.

E’ difficile fare una riflessione storica sul nesso tra Costituzione e lavoro in giorni durante i quali la drammatica vicenda delle morti sul lavoro mette in discussione qualsiasi idea di progresso della storia. La morte dei sei lavoratori nel catanese è una delle tragedie del lavoro più gravi degli ultimi anni. Solo l’incendio di dicembre alla Thyssen Krupp di Torino, con sette morti, ha avuto un bilancio più pesante. Ricordiamo tutti, inoltre, i cinque lavoratori deceduti a marzo a Molfetta per le esalazioni durante i lavori di pulitura della cisterna di un camion. Ma l’elenco degli incidenti è tragicamente lungo.

Si tratta di una guerra tanto invisibile quanto dolorosa che si combatte quotidianamente nei luoghi di lavoro e ogni anno miete due milioni di vittime nel mondo, pressappoco quanti morirono per ogni anno di conflitto durante la Prima guerra mondiale. Un paragone agghiacciante, ma è ciò che emerge dai dati divulgati dall’Organizzazione internazionale del lavoro in occasione dell’ultima Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro. Mediamente in Italia ci sono tra le tre e le quattro vittime al giorno. Una ogni 7 ore, poco meno della lunghezza di un turno di lavoro. Ciò significa che ogni giorno un marcatempo, cartellino o badge timbrato in entrata è, tragicamente, destinato a non registrare un’uscita.

Ecco perché voglio ringraziare ulteriormente il segretario nazionale della Cgil per essere qui con noi. Perché ciò dà maggior valore ad un’iniziativa che vuole ricordare il 60° della Costituzione, a pochi giorni dalle celebrazioni del 2 giugno, e rimettere al centro di queste celebrazioni il tema del lavoro, della sua sicurezza, della sua dignità.

 

Ritornando all’immediato dopoguerra, mi pare ci siano due sentimenti prevalenti che attraversavano il mondo del lavoro:

1)        la fatica. In queste terre poverissime nel dopoguerra c’erano mestieri che trasmettono fatica solo ad evocarli (i birrocciai, coloro che conducevano i carri a trazione animale, le mondine, le trecciaie, i braccianti, gli scariolanti). Un’Italia che oggi ci appare antica, ma che ci ricorda quanto la precarietà del lavoro riguardasse anche quella generazione. Basta evocare altre categorie: le lavoranti a domicilio, gli avventizi;

2)        insieme alla fatica, l’altro sentimento diffuso era però la speranza e la fiducia in un futuro migliore. La speranza che la lotta per la libertà del movimento partigiano, la sconfitta del fascismo e la fine della guerra avrebbero aperto una stagione di profondo rinnovamento e consentito alle generazioni coeve e successive un futuro migliore. Fondamentale per costruire una città più prospera e coesa si rivelò il contributo delle lavoratrici e dei lavoratori carpigiani. E, in seguito, il contributo che venne dagli immigrati meridionali di prima generazione, tra gli anni Sessanta e Settanta, che contribuirono a definire l’identità della nostra comunità. Permettetemi di ricordarlo, non perché sono anche io figlio di quell’ondata migratoria, ma perché viene rammentato raramente. Così come sono certo ringrazieremo tra qualche anno gli immigrati stranieri.

 

Ebbene, per tentare un paragone, oggi la fatica del lavoro, esiste ancora e i lavori usuranti ci sono anche nell’Italia moderna. Del resto molte funzioni oggi le svolgono le macchine e sono cambiati a volte i nomi delle categorie, ma non sempre le mansioni. La precarietà non ne parliamo. Ma la speranza? La speranza e la fiducia nel futuro contagiava la generazione che ricostruì il Paese dalle macerie della dittatura e della guerra. Oggi mi pare che invece domini l’incertezza. Insomma, per citare il titolo di una raccolta di poesie di un poeta inglese, “Il futuro non è più quello di una volta”, come capita spesso di leggere anche sui muri delle nostre città.

Al contrario, i giovani che festeggiavano la liberazione di Carpi nell’aprile del 1945, benché segnati dai lutti della guerra e dell’occupazione, nutrivano grande fiducia nella nuova stagione democratica.

I rapporti di forza tra i vari partiti a Carpi si chiarirono con le elezioni amministrative del 1946 (che si tennero il 24 Marzo 1946 e videro affermarsi le sinistre col Pci al 63,61% e il Psi al 17,90%, mentre la Dc raccolse il 18,27% dei voti) e con l’elezione per l’Assemblea Costituente del 2 giugno successivo (Pci al 58,1% e il Psiup al 18,5%, mentre la Dc raccolse il 16,5%).

Con il voto nazionale del 18 aprile 1948 e la vittoria su base nazionale della Dc si configurò uno scenario, destinato a rimanere immutato per 50 anni, che vedeva il partito cattolico alla guida dei governi nazionali e le sinistre saldamente alla guida delle istituzioni locali delle cosiddette zone rosse, come appunto il carpigiano. Ciò che accadde a Carpi è sorprendente: la giunta unitaria composta da comunisti, socialisti e democristiani sopravvisse alla rottura del governo di unità antifascista del maggio 1947 e al voto del 18 aprile, e si dissolse solo con la fine del primo mandato amministrativo nel 1951. La vitalità delle giunte unitarie (che superarono lo spartiacque del 1947-48) riguardò tutta la Prima zona partigiana comprendente Carpi, Soliera, Novi e Campogalliano. Lo ricordo ogni volta perché è la dimostrazione che forze politiche e sociali divise dalle contrapposizioni politiche ed ideologiche sono state capaci di affrontare unite le emergenze nell’interesse della comunità locale.

E’ in questo quadro che nasce la Costituzione italiana. Spesso si ricorda l’alto compromesso politico alla base della Carta tra forze politiche molto diverse (socialisti e comunisti, democristiani, liberali, laici e repubblicani). Un dialogo e un confronto che proseguì anche dopo l’uscita delle sinistre dal Governo nel maggio 1947, nell’interesse del popolo italiano, e che si concluse con l’approvazione alla fine dell’anno della Carta e la sua promulgazione il 1° gennaio 1948.

Come noto, la Costituzione fu il prodotto di questo accordo orizzontale tra le diverse culture politiche, ma ha potuto resistere ad ogni scossa soprattutto grazie al fatto che alla sua base vi era un accordo verticale tra le forze sociali del paese, tra la grande borghesia e il sindacato. Insomma, la Costituzione rappresentò il migliore compromesso fra cultura liberale, cattolica e marxista, ma fu anche, direi soprattutto e non lo si ricorda mai, un patto sociale tra èlite economiche e mondo del lavoro. Il sindacato fu dunque il contraente fondamentale di questo patto, e non a caso sin dal primo articolo il tema del lavoro è sottolineato dai padri costituenti.

Ho fatto un esercizio in vista di questa iniziativa controllando quante volte è citato il lavoro nella Carta: 19 volte la parola lavoro, che salgono a 30 con i riferimento ai lavoratori (per fare un paragone significativo, sono citate 13 volte la parola libertà e 5 parole sono legate al termine democrazia).

Lavoro inteso non solo come fenomeno economico, ma come elemento fondamentale per affermare la propria dignità e delineare la propria identità sociale. Era il riconoscimento di decennali lotte dei lavoratori e testimoniava la consapevolezza che non si poteva prescindere dal sindacato se si voleva dare alla Costituzione e al Paese la forza di sopravvivere alle temperie politiche del dopoguerra e a ogni minaccia alla democrazia.

Il Sindacato si presentò unito e forte a quell’appuntamento, in seguito alla firma del Patto di Roma nel giugno del 1944 alla costituzione della CGIL unitaria. Non era mai esistita un’organizzazione che raggruppasse forze di ispirazione cattolica, socialista e comunista, formalmente autonoma dai partiti politici, dallo Stato, dal governo e dal sistema economico. L’organizzazione sindacale – ricostruita su ispirazione di Di Vittorio, di Buozzi e di Grandi – fu una grande e autonoma organizzazione di rappresentanza dell’insieme del mondo del lavoro. Dopo essere stata la più decisiva forza in campo contro il fascismo, in un paese sconfitto e distrutto dalla guerra, il mondo del lavoro fu il soggetto contraente fondamentale del patto costituzionale. Ciò consentì la costituzionalizzazione, dopo oltre novantanni di storia unitaria, delle masse lavoratrici italiane.

La CGIL unitaria salutò l’entrata in vigore della Costituzione come “Un avvenimento di capitale importanza. […] Una magnifica vittoria democratica”. Una Costituzione dai contenuti forti e radicali e ricca di principi che rappresentavano la necessaria premessa per l’attuazione di una reale democrazia. La promulgazione rappresentava un momento di approdo di un lungo e difficile percorso, e, nello stesso tempo, segnava l’inizio di una nuova battaglia, per la traduzione concreta dei principi di democrazia e di giustizia sociale consacrati nella Carta.

Per tutto il dopoguerra, alla base dell’azione politica del sindacato c’è sempre stata la Costituzione, nella convinzione che la difesa e l’applicazione della Carta fosse la migliore garanzia per lo sviluppo democratico del Paese.

Ancora oggi, peraltro, il testo elaborato unitariamente sulla riforma del modello contrattuale su cui si stanno facendo le assemblee di consultazione coi lavoratori per poi presentarlo al confronto con Governo e le parti sociali, così mi dice la segretaria della Cgil carpigiana Tamara Calzolari, contiene diversi punti di attuazione e contatto col testo Costituzionale, rispetto sia all’art. 36 per quanto riguarda il livello di retribuzione, sia all’art. 39 riguardo la democrazia e la rappresentatività delle organizzazioni sindacali.

Vorrei allora concludere citando le parole di Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente, che firmò la Carta insieme al Presidente del Consiglio De Gasperi ed al Presidente De Nicola: “Il lettore della nuova Costituzione vede ricorrere in essa molte volte la parola ‘lavoro’, completamente ignorata dallo Statuto Albertino del 1848. Sta di fatto che, dopo decenni e decenni di lotte tenaci, pur attraverso la parentesi obbrobriosa del fascismo, i diritti del lavoro hanno avuto finalmente il loro riconoscimento decisivo, diventando materia costituzionale e cioè parte integrante della legge fondamentale della Repubblica”.

Non si trattò di una concessione, come spero sia emerso dalla mia introduzione, ma fu l’esito di una lunga e decennale lotta. Questa storia ancora oggi ci insegna che se si vuole dare solidità ad un nuovo patto sociale o a un qualsiasi accordo sulle riforme, si deve necessariamente ricorrere al sindacato, un interlocutore che i patti e gli accordi li ha sempre cercati, sottoscritti, rispettati e difesi.”

 

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