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12 luglio 1944 – 12 luglio 2008: 64° Anniversario della strage dei 67 martiri di Fossoli

«Signor Sindaco, familiari delle vittime della strage di Cibeno, Autorità civili, militari e religiose, Associazioni partigiane, combattentistiche ed ex deportati, cittadine e cittadini, è per me un onore, e di questo vi ringrazio, essere stata invitata dall’amministrazione comunale a tenere il discorso ufficiale in memoria delle 67 vittime, dei 67 martiri della strage di Fossili.
64 lunghi anni ci separano da quell’evento tragico, sanguinoso, che si consumò qui, presso il Poligono di Tiro di Cibeno, all’alba del 12 luglio.
Come è stato giustamente scritto nella prefazione del libro Uomini nomi memoria, il 12 luglio è il nostro “giorno della memoria”, e continuiamo a celebrarlo con passione, con responsabilità, nella convinzione che le scelte valoriali e gli ideali ispiratori di questi martiri costituiscano il faro che orienta il nostro futuro.
La strage del 12 luglio è anticipata dall’uccisione di Leopardo Gasparotto, anch’egli imprigionato nel campo di Fossoli. Gasparotto era stata una figura altissima dell’antifascismo milanese, era stato un indomito oppositore al regime: per questa ragione fu assassinato a freddo, falciato alla schiena, perché come ha scritto Enea Fergnani i suoi carnefici non potevano “subire la sua lotta”.
E veniamo al 12 luglio.
La sera precedente, 71 internati politici del campo, dopo il consueto appello, sono fatti uscire dalle file, separati dagli altri e alloggiati in una baracca a loro destinata, con la motivazione che l’indomani, molto presto, sarebbero partiti per la Germania.
Alle 4 del mattino sono fatti uscire dalla baracca, meno uno, Renato Carenini, così che il numero dei condannati si arresta a 70, una cifra netta e più comprensibile per la macabra contabilità nazista, che però è beffata dalla intraprendenza di uno dei condannati, Teresio Olivelli, che durante la notte è riuscito nascondersi e a sfuggire alla fucilazione. Olivelli non riesce però sottrarsi, pochi mesi dopo, alla morte nel campo di Hersbruck, nel gennaio ’45.
I 69 condannati sono suddivisi in tre gruppi, che giungono al poligono di tiro in tre spedizioni successive. Qui li aspetta la lettura beffarda della sentenza della condanna a morte, per rappresaglia a un attentato avvenuto a Genova. Dopo la lettura i prigionieri, a coppie, vengono fatti inginocchiare sul bordo della fossa comune, nella quale si riversano, per inerzia, dopo aver ricevuto un colpo alla nuca.
Vale la pena ricordare che nel secondo gruppo, due condannati riuscono a fuggire – Mario Fasoli e Eugenio Jemina – e a salvarsi grazie all’appoggio dei contadini e dei partigiani della zona.
Al termine della raccapricciante fucilazione, sono quindi 67 i corpi buttati nella fossa.
La strage sconvolge tutta la comunità carpigiana. Il vescovo di Carpi, monsignor Federico Vigilio Dalla Zuanna, appresa tardivamente la volontà dei nazisti, inutilmente tenta di intercedere per salvare i condannati.
Anche le forze della Resistenza sono colte di sorpresa. Il movimento partigiano aveva elaborato progetti per liberare internati del Campo di Fossoli, ma alla fine aveva desistito da ogni operazione militare.
Era infatti impraticabile un attacco al Campo, per il suo sistema di difesa e per l’entità delle forze resistenziali del tempo, che avevano messo a segno la prima azione militare di un certo rilievo, proprio nel giugno del ’44, con un attentato alla linea ferroviaria Modena-Mantova, nei pressi di Fossoli.
Del resto, quand’anche l’attacco al campo avesse avuto un esito positivo, sarebbe rimasto irrisolto il problema di nascondere migliaia di persone e di farle riparare in montagna, dove si trovavano le brigate partigiane. Rispetto al progetto di una fuga collettiva, le organizzazioni della Resistenza privilegiarono l’attività di assistenza ai deportati, alla quale partecipò attivamente anche la popolazione locale.
Dell’assistenza ai deportati si fece strumento, in particolare, il parroco di Fossoli, don Francesco Venturelli, il cui profilo morale e la cui attività di sostegno ai deportati emergono con sempre maggiore precisione grazie ai recenti studi di Anna Maria Ori, alla quale, insieme a Metella Montanari e a Carla Bianchi – figlia di una delle vittime, Carlo Bianchi – dobbiamo molte delle notizie sulla strage di Cibeno, che fu posta sotto silenzio fin dall’inizio – anche dagli stessi autori – e spesso è stata dimenticata e omessa dagli elenchi delle stragi nazi-fasciste.
L’amministrazione comunale di Carpi, invece, con l’annuale celebrazione del 12 luglio, con la creazione del Museo Monumento al deportato politico razziale, con la costituzione della Fondazione ex campo Fossoli, con l’organizzazione del treno della memoria per Auschwitz e con la costante attenzione sull’accertamento delle responsabilità del tenente delle SS Thito e del maresciallo delle SS Haage, i boia dei campi di Fossoli e di Bolzano, non si è mai sottratta all’esercizio del ricordare per non dimenticare, all’esercizio della costruzione della nostra memoria collettiva.
La strage del 12 luglio 1944 fu una delle più efferate compiute nei bui venti mesi della Repubblica Sociale e costituisce l’episodio di violenza più grave della storia della Prima zona partigiana (comprendente le campagne tra Carpi, Soliera, Campogalliano e Novi), dove durissima fu la lotta di liberazione tra il movimento partigiano che costantemente ampliava le proprie dimensioni, grazie al sostegno della popolazione, e l’alleanza di tedeschi e fascisti decisi a reprimere con ferocia e brutalità ogni forma di opposizione, anche ricorrendo a stragi inaudite, di civili, partigiani e patrioti, come quella che oggi ricordiamo.
Fascismo che, è bene ricordarlo, prima di essere stato complice della barbarie nazista, aveva abolito le libertà individuali e associative e cancellato ogni forma di democrazia rappresentativa; aveva mandato gli oppositori politici in carcere e al confino, dopo processi farsa celebrati in tribunali speciali; aveva dato vita ad una dittatura che macchiò l’Italia dell’ignominia delle leggi razziali e condotto il Paese verso una guerra tanto velleitaria quanto rovinosa.
Le vittime dell’eccidio di Cibeno provenivano da 27 diverse province italiane, prevalentemente del Centro-Nord, ed erano internate per ragioni politiche. Rappresentavano un pezzo d’Italia. Dell’Italia migliore. Esprimevano le diverse culture politiche antifasciste che combatterono la Repubblica fantoccio di Mussolini e l’invasore tedesco. Anche geograficamente, la loro provenienza eterogenea è il segno di come vi fosse un’altra Italia pronta, a rischiare e a sacrificare la vita per la libertà e la democrazia.
L’eccidio costituisce un caso anomalo rispetto a analoghi episodi di crudeltà nazifascista. Alcuni storici tendono ad escludere, come reale causa, la rappresaglia per l’uccisione di militari tedeschi a Genova, ed ipotizzano invece la volontà di stroncare un’organizzazione di resistenza interna, eliminando personalità di rilievo come ex ufficiali e un gruppo di intellettuali lombardi di area cattolica.
Ad oggi dunque non sono state chiariti del tutto il criterio di selezione delle vittime e le responsabilità precise dell’eccidio, che non ha avuto giustizia, in analogia ad altre stragi che hanno insanguinato il Paese nell’epilogo del conflitto.
Tra il 1943 e il 1945 vennero massacrati dalle truppe nazifasciste più di quindicimila civili, in maggioranza donne e bambini, e i fascicoli riguardanti tali crimini – è bene ricordarlo in questa sede – furono sepolti in un armadio presso la sede della Procura Generale Militare di Roma, dove fu rinvenuto casualmente nel 1994. Si tratta del cosiddetto “Armadio della vergogna”, nel quale tante verità furono a lungo sepolte.
Il procuratore militare Antonino Intelisano, che in quel periodo si occupava del processo contro l’ex ss Erich Priebke, cercando in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi, nella cancelleria della procura militare, trovò un armadio, rimasto per decenni con l’apertura rivolta verso il muro, all’interno del quale erano conservati dei documenti, archiviati provvisoriamente 34 anni prima, che provavano le atrocità dei nazifascisti.
All’interno dell’“Armadio della vergogna” c’erano ben 695 fascicoli processuali, contenenti denunce precise di eccidi commessi in Italia durante l’occupazione nazista dai tedeschi, ma anche dai collaborazionisti e dai reparti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini. Una serie sconvolgente di atrocità compiute lungo la Penisola nei confronti di detenuti politici, partigiani, ebrei, antifascisti, gente comune e popolazione inerme.
L’occultamento dei fascicoli, avvenuto probabilmente per ragioni di politica internazionale, e il ritrovamento tardivo hanno fatto sì che la maggior parte dei responsabili rimanessero impuniti e la ricostruzione storica di quei crimini fosse ostacolata.
La commissione parlamentare d’inchiesta sull’”Armadio della vergogna” – nonostante la vice-presidenza del sen. Luciano Guerzoni – è stata purtroppo un’occasione mancata per far luce sulle responsabilità anche politiche di quell’occultamento di prove e fatti, di quel tentativo di rimozione di un pezzo della nostra storia recente, che rappresenta una ferita giudiziaria non solo alla memoria ma anche alla dignità dello Stato italiano.
Su 695 fascicoli riguardanti le stragi nazi-fasciste, ben 214 sono stati assegnati al Tribunale Militare della Spezia per competenza territoriale. Fra le stragi più significative per crudeltà e numero delle vittime ci sono la strage di Sant’Anna di Stazzema con circa 500 vittime; quella di Marzabotto con 1.830 vittime; quella di Civitella con 244 vittime.
Nomi che riportano alla mente le ferite più profonde della nostra storia.
Grazie alle indagini dei Magistrati Militari di La Spezia si è iniziato a rendere giustizia alla memoria delle vittime di molte stragi e ai loro famigliari e in Germania sono stati recentemente aperti altri 69 procedimenti.
Ebbene, tale Tribunale rischia adesso la soppressione, che dovrebbe avvenire per tutti i Tribunali Militari a partire dal 1 luglio 2008: tale eventualità provocherebbe di fatto l’interruzione delle indagini in corso e dei relativi processi sulle stragi nazifasciste, tra cui quella del vicino Monchio: 150 persone che il 18 marzo 1944 furono trucidate dai nazisti. La più feroce strage perpetrata nella provincia di Modena.
Ora, però, potremmo trovarci davanti ad una situazione paradossale con le sentenze dei processi in Germania e un nuovo insabbiamento di quelli in Italia.
Nella convinzione che non si possa mettere sullo stesso piano l’attività specifica del tribunale militare di La Spezia con gli altri, insieme ad altri parlamentari ho firmato un’interpellanza urgente per scongiurarne la soppressione consentendo così la conclusione dei processi. In alternativa, abbiamo chiesto che venga concessa una proroga del termine fissato, che consenta di assumere misure adeguate a garantire la prosecuzione dei processi nell’ambito penale.
Continueremo a vigilare affinché il tribunale spezzino possa assolvere alla propria funzione: noi abbiamo bisogno che su queste vicende non si perda la memoria e non ci si stanchi mai di cercare la verità. Solo così potremo veramente avere una storia e valori condivisi.
Vedete, qualche anno fa siamo stati in prima fila, penso alle affermazioni dell’allora Presidente della Camera Violante, nell’invocare una conciliazione tra le memorie del nostro Paese ed un riconoscimento comune all’interno del perimetro di valori delineato dalla Carta Costituzionale.
Ma quando dicevamo, e continuiamo a sostenere, che il Paese ha bisogno di trovare una storia condivisa, all’interno della quale riconoscersi e progettare il suo futuro, non abbiamo certamente mai inteso confondere le ragioni del movimento partigiano con i torti dei nazifascisti.
Quando abbiamo detto che i ragazzi di Salò meritano pietà umana non abbiamo mai confuso ciò che da vivi essi rappresentavano con i veri valori che stavano sul fronte antifascista.
Allo stesso modo, quando celebriamo stragi come quella di Cibeno, non ricordiamo solo le vittime e non commemoriamo solo il dolore dei famigliari, ai quali naturalmente va tutta la nostra vicinanza, ma ricordiamo pubblicamente le ragioni delle vittime. Ricordiamo che grazie agli ideali di libertà e democrazia per cui quei giovani combatterono e morirono, gli italiani si sono riscattati in parte dall’onta del fascismo, possiedono oggi una Carta costituzionale tra le più avanzate del mondo e hanno costruito un sistema democratico solido, ricco di anticorpi, capaci di rispondere a qualsiasi minaccia democratica.
E questa è la più grande eredità che ci hanno lasciato.
Aveva ben ragione Piero Calamandrei a sostenere che il pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione – sessant’anni fa – andava fatto non negli archivi, ma ovunque i partigiani caddero, furono imprigionati o impiccati. Dovunque fosse morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità: lì è nata la nostra Costituzione.
La Resistenza combattuta dai partigiani; quella dei militari, abbandonati a loro stessi dopo l’8 settembre, trucidati come accadde a Cefalonia o deportati in Germania non come prigionieri di guerra ma come traditori; quella di sabotaggio e degli scioperi esercitata degli operai; quella di sostegno logistico e organizzativo alle formazioni partigiane intrapresa dalle donne, quando non divennero loro stesse combattenti; quella attuata dai tanti parroci e religiosi e dai tanti civili che vollero dare aiuto agli antifascisti e agli ebrei perseguitati, come don Sala e Odoardo Focherini: tutte queste Resistenze ebbero dunque come esito conclusivo la nascita della democrazia e di un nuovo assetto istituzionale, politico e sociale, nel quale tutto il popolo può effettivamente, liberamente e responsabilmente prendere parte alle decisioni collettive.
Anche in questo luogo di efferata violenza, dove vennero barbaramente trucidati 67 italiani, nacque la nostra democrazia e la nostra Costituzione.
Ed insieme al 60esimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della nostra Repubblica è opportuno ricordare anche una ricorrenza di segno opposto: il 70esimo dalla promulgazione delle leggi razziali fasciste del 1938.
Siamo a poca distanza dall’ex campo di concentramento di Fossoli, il principale luogo di raccolta e di smistamento di ebrei e deportati politici in Italia durante la Seconda guerra mondiale, il luogo da dove partirono migliaia di donne, uomini, anziani e bambini in direzione dei campi di concentramento e sterminio nazisti.
La loro colpa era a volte ciò che facevano (i partigiani), a volte ciò che pensavano (gli oppositori politici), a volte ciò che erano (gli ebrei, ai quali toccò la sorte peggiore).
Non dobbiamo mai dimenticarlo. Perché, al di fuori della perfetta cornice istituzionale e di tutti gli istituti di garanzia democratica che i nostri padri costituenti hanno delineato, e che a volte qualcuno tenta di compromettere, esiste un anticorpo alle minacce democratiche di cui tutti noi siamo custodi e responsabili.
Questo anticorpo è la memoria, che tutti noi dobbiamo mantenere viva e trasmettere ai più giovani, anche con celebrazioni come questa che non ci stancheremo mai di tenere.
Lo dobbiamo ai 67 martiri di Cibeno, alle loro famiglie, all’Italia intera.»
Manuela Ghizzoni

per saperne di più:
Eccidio di Cibeno, il programma delle celebrazioni del 13 luglio
Fondazione ex campo Fossoli

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