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“Incentivare il lavoro femminile. Anche per far ripartire i consumi”, di Alessia Mosca

Un policy maker dovrebbe decidere le strategie politiche in base a una serie di variabili e valutazioni, tra le quali non possono mancare la coerenza nella risoluzione dei problemi più urgenti del paese e la sostenibilità economica di tali iniziative rispetto alle risorse disponibili.
L’Italia sta vivendo un periodo di grande difficoltà economica, legata al crescente rincaro dei prezzi, non bilanciato da un corrispettivo aumento dei salari, né da un aumento della produttività. Quest’ultima è determinata da una serie di fattori, tra cui la scarsa valorizzazione delle migliori competenze e una organizzazione del lavoro ancora rigida.
Sia in termini di orari di lavoro, sia per le modalità di valutazione della progressione salariale e di carriera, focalizzate più sulla quantità che sulla qualità.

L’Italia ha un livello di occupazione femminile del 46%, con una punta minima del 31% nelle regioni meridionali. Una situazione aggravata dalla recente fuoriuscita dal mercato di una larga fetta di lavoratrici potenziali, disilluse dopo vane ricerche di un lavoro.
La media dell’Unione europea è del 57%, l’obiettivo fissato dal Strategia di Lisbona è del 60%. Solo Malta, tra i 27 paesi membri, è messa peggio.
Le statistiche ci dicono che le donne lavoratrici e quelle che vivono nelle aree più dinamiche (Milano in primis) hanno più figli rispetto alle disoccupate o precarie. Quindi il sostegno e l’incentivo all’occupazione femminile è la soluzione più facile e immediata che in Italia un policy maker può avanzare, per una serie di ragioni.
Aumentare il tasso di occupazione femminile avrebbe un impatto dirompente su una serie di fattori: aumenterebbe la crescita complessiva del nostro paese. Se le donne lavorano, non tolgono spazio ai colleghi uomini: aumentano i consumi, si esternalizzano alcuni servizi, aumenta la crescita economica e quindi il tasso di occupazione.
Il secondo salario in famiglia sarebbe una risposta efficace contro l’impoverimento e per far ripartire i consumi. Quindi, la prima delle condizioni perché una misura di questa natura possa essere adottata dal policy maker sarebbe soddisfatta. Sugli incentivi all’occupazione femminile non ci sarebbero neppure controindicazioni riguardo alla seconda condizione: i costi di realizzazione.
Questa azione è capace di sostenersi da sola nel medio periodo. A seguito di un esborso iniziale, infatti, l’efficacia dell’intervento provocherebbe un aumento del tasso di occupazione e l’emersione dal nero di una fetta di popolazione tale da compensare i costi iniziali di avvio.
Il Pd ha presentato al parlamento una proposta di legge comprensiva di una serie di misure per incentivare il lavoro femminile.

L’esperienza ci insegna che non basta concentrarsi su un unico aspetto per conseguire gli obiettivi che ci si propone. L’occupazione delle donne può essere aumentata solo se si agisce su diversi fronti. Quello della conciliazione fra lavoro e vita familiare, quello della suddivisione dei compiti all’interno della famiglia, quello della convenienza fiscale, quello del raggiungimento della parità salariale. Per questa ragione, la nostra proposta di legge contiene un insieme articolato di elementi: un piano per l’aumento dei servizi, in particolare gli asili nido; incentivi fiscali per le lavoratrici; la detraibilità delle spese di cura per tutte le lavoratrici, a prescindere dalla tipologia contrattuale con cui sono impiegate; misura, questa, che aiuterebbe anche l’emersione del lavoro nero, perché ci sarebbe convenienza a regolarizzare tutte le prestazioni; il credito d’imposta per l’occupazione femminile nel Mezzogiorno; l’estensione dei congedi parentali, con la possibilità di acquisire il diritto a tre mesi aggiuntivi a patto che vengano usufruiti per almeno quattro mesi anche dai lavoratori padri; il bollino di qualità per le aziende che applicano l’effettiva parità. È sorprendente che, dinnanzi a un quadro così chiaro, la risposta del governo Berlusconi sia un silenzio totale sul tema. Addirittura peggio: vari indizi fanno pensare a una tendenza a disincentivare il lavoro femminile o, comunque, a considerarlo di serie B.

Europa, 15 luglio 2008