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L’on. Manuela Ghizzoni interviene alla Camera sulla conversione in legge del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112

Signor Presidente, Sottosegretario Vegas, onorevoli colleghi,

in premessa vorrei esprimere una valutazione sul vettore normativo, cioè il decreto legge, scelto dal Governo per anticipare a metà anno gran parte della manovra di finanza pubblica.

Come Partito Democratico stigmatizziamo tale scelta del Governo.

Le modalità e i tempi contratti di conversione del decreto in legge, infatti, impediscono di affrontare compiutamente la dimensione e la rilevanza economica e sociale delle misure contenute nel provvedimento.

Con la decretazione d’urgenza, i componenti delle commissioni permanenti sono esautorati dal vagliare approfonditamente le materie di propria competenza e la sorte di una discussione limitata tocca anche a norme di carattere ordinamentale contenute nel decreto.

Ve ne sono alcune, ad esempio, che riguardano istruzione e università. Si tratta, senza tema di essere smentiti, di riforme occulte, i cui esiti però non potranno essere dissimulati, poiché incideranno pesantemente sugli attuali e soprattutto sui futuri assetti della scuola pubblica e del sistema universitario e della ricerca.

Ancora, la scelta del decreto legge non consente la predisposizione a quel clima di dialogo e di condivisione – tanto invocato in avvio di legislatura – che andrebbe invece garantito alle materie e agli ambiti relativi alle scelte strategiche e di lungo periodo del Paese.

Infine, mi lasci aggiungere, signor Presidente, che l’uso intenso della decretazione d’urgenza, fin dall’avvio della legislatura, sta producendo un eccezionale squilibrio tra i poteri dello Stato, un’anomala dilatazione del potere esecutivo a discapito di quello legislativo, una estromissione del Parlamento e, in particolare, dell’opposizione dall’assolvere al proprio ruolo.

Su questo scenario, si innesta la richiesta del voto di fiducia, il terzo, preannunciato ieri con una prassi inusuale. Il Governo ha quindi deliberato di sottrarsi ancora una volta al dibattito parlamentare, al costituzionale confronto tra opposizione e maggioranza e – vorrei aggiungere – alla consueta dialettica interna alle forze di maggioranza.

Il maxiemendamento rappresenta l’ultima, anzi la penultima, stando alle correzioni presentate stamani, delle approssimazioni successive con cui il Governo ha proceduto nel definire la propria manovra triennale: come interpretare, del resto, gli oltre 130 emendamenti presentati dal governo? O si tratta di una forma di accanimento terapeutico verso il testo originario, quello approvato in 9 minuti e mezzo ma scritto in ben 9 giorni, oppure siamo di fronte ad una stato di confusione programmatica, dove la strategia si ingarbuglia con la tattica.

 

Il Partito democratico esprime un giudizio negativo su questa manovra. Riteniamo infatti che oltre a non affrontare il problema urgentissimo del potere d’acquisto delle famiglie, essa non contiene alcun provvedimento concreto a sostegno della crescita del Paese. Questa è una manovra depressiva, che si regge esclusivamente su tagli di spesa lineari, generalizzati e non finalizzati a sconfiggere sprechi e inefficienze, come invece ci si aspetterebbe da un Governo responsabile; una manovra che produrrà inevitabili e pesantissimi tagli “di diritti”, a causa delle forti riduzioni di spesa del nostro sistema di welfare.

Una manovra che palesa il proprio carattere recessivo soprattutto se si prendono in considerazione i provvedimenti previsti per scuola e università, vale a dire per le strutture che rappresentano il volano della crescita sociale, culturale ed economica del Paese.

Intervenire sul sistema scolastico e universitario con la sola preoccupazione di tagliare, di ridurre, di comprimere, tradisce evidentemente una ideologica prevenzione nei confronti del sistema pubblico di istruzione e formazione, percepito come mero elemento della manomorta pubblica da smantellare e manifesta altresì una colpevole disattenzione verso gli obiettivi di Lisbona e del cosiddetto processo di Bologna che, va detto, tutta Europa persegue, eccetto il Paese che lo ha visto nascere.

Tale atteggiamento determina una irresponsabile preclusione del Paese alla crescita e al futuro che sono affidati all’istruzione, alla formazione superiore, alla ricerca di base, al trasferimento tecnologico, all’innovazione.   

Sulla scure che si è abbattuta sulla scuola e per esporre le proposte alternative del Partito Democratico interverrà la collega Coscia: pertanto, signor Presidente, mi limiterò a valutare le conseguenze previste per l’Università dagli articoli 16, 66 e 69 del testo licenziato dalle commissioni Bilancio e Finanze e assorbiti nel maxiemendamento.

In particolare, il comma 13 dell’art. 66 dispone per le Università un limite al turn over delle assunzioni del personale, per ciascun anno del triennio 2009-2011, pari al 20% delle cessazioni dal servizio verificatisi l’anno precedente: in altre parole, Signor Presidente, per assumere un giovane ricercatore occorrerà attendere che siano andati in pensione almeno 5 professori.

In particolare, per il corpo accademico, il reale peso di questa norma può essere colto se abbinato alle previsioni di pensionamento indicate dal ministro Gelmini in audizione, e stimate, entro il 2012, nel 47% del personale. Con il blocco del turn over al 20%, ciò corrisponde in termini assoluti a più di 22.500 professori e ricercatori in meno, pari a un taglio clamoroso del 37,6% della forza lavoro più qualificata per la didattica e la ricerca universitarie.

Forse le previsioni di pensionamento indicate dal ministro Gelmini sono pessimistiche: la CRUI ipotizza infatti che saranno “solo” 8000 i professori e i ricercatori che andranno in pensione entro il 2013 e che potranno essere sostituiti da 1.600 nuovi assunti: signor Presidente, se anche così fosse, ci troveremmo comunque di fronte ad una situazione allarmante per la tenuta del sistema.

Insomma, di fronte ad una prevista emorragia di personale, il Governo non mette in campo alcuna strategia per ringiovanire il corpo accademico e innovare la qualità della didattica e della ricerca.

Eppure risuonano ancora nelle nostre orecchie le affermazioni del Ministro Gelmini, pronunciate nel corso dell’audizione sulle linee programmatiche del suo dicastero, sul ruolo dei giovani bloccato da una società gerontocratica e sulla volontà di coinvolgere i giovani docenti e ricercatori per progettare il futuro del Paese. Stante il provvedimento sul turn over, dobbiamo ritenere che la volontà espressa dal ministro di aprire le porte dell’Eur ai giovani, sia da limitare alle sole porte del ministero, non certo a quelle dell’Università e degli enti di ricerca, che si spalancheranno invece per far uscire personale. O, forse, è il ministro dell’Economia a non essere d’accordo con il ministro dell’Università.

Insomma, invece di garantire il turn over, lo si blocca e – e questo è ancora più grave – lo si fa in modo indiscriminato e per tutti gli Atenei, indipendentemente da una seria valutazione sia dell’attività dei docenti e quindi dell’offerta didattica, sia delle strategie assunte dai singoli Atenei per migliorare la qualità dei servizi.

Ma, evidentemente, di valutazione, di valorizzazione delle esperienze meritevoli e di autonomia non c’è bisogno quando lo scopo dell’intervento è fare cassa: a fronte delle mancate immissioni in ruolo, si prevede infatti di ridurre, nel quinquennio 2009-2013, di oltre un miliardo e 400 milioni il Fondo di Funzionamento Ordinario, il cosiddetto FFO, cioè il fondo con il quale lo Stato trasferisce le risorse agli Atenei.

A questa significativa decurtazione devono sommarsi i due diversi tagli già contenuti nel decreto di abolizione dell’ICI: vale a dire, già a partire dal 2008, il taglio dei 16 milioni di incremento dell’FFO introdotto dal cosiddetto milleproroghe approvato nel febbraio di quest’anno e, a partire dal 2010 e in modo permanente, dell’ulteriore taglio di ben 467 milioni, corrispondenti al 6,78% della dotazione della tabella C, in cui è rubricata la gran parte delle risorse per l’università.

Non sfugge a nessuno la consistenza di tali riduzioni del FFO, ma forse non tutti i colleghi sanno che è a valere su questo fondo che gli Atenei affrontano non solo le spese correnti di amministrazione e di organizzazione, ma anche quelle del personale. Come è facile intuire, si tratta quindi di spese obbligatorie e incomprimibili, e ad oggi, non pochi Atenei utilizzano poco meno del 90% del fondo per coprire le spese di personale.

Per capirci: a fronte di questa spesa per il personale, il taglio previsto del 6,78 del fondo corrisponde ad un taglio del 67,8% delle spese correnti.

Un taglio assolutamente insostenibile per qualunque amministrazione, pubblica e privata, ancorché virtuosa.

Insomma, il combinato disposto dei tagli dell’FFO e degli aumenti  stipendiali del personale docente avrà come conseguenza che la quota per le spese amministrative, per ricerche, per la manutenzione edilizia, per attività istituzionali, di promozione e ogni altra esigenza organizzativa dell’Ateneo sarà sempre più residuale, fino quasi a scomparire a partire dal 2013. Da quella data non ci sarebbero più risorse per pagare le utenze, gli affitti o le pulizie dei locali. Già dal prossimo anno, a meno di un ripensamento, assisteremo alla progressiva paralisi del funzionamento degli Atenei o al collasso dell’andamento amministrativo: scelga il Governo l’espressione che preferisce, ma nei fatti l’esito concreto è identico e comunque nefasto per il nostro sistema universitario.

Il Partito Democratico ha presentato alcune proposte emendative al comma 13 dell’art. 66 per riportare la percentuale di contenimento del turn over ai limiti delle leggi finanziarie precedenti, che non possono certo essere tacciate di scarsa attenzione alla riduzione della spesa pubblica, poiché è stato proprio grazie a queste manovre economiche che la commissione europea ha ritirato la procedura di infrazione per deficit eccessivo, aperta nei confronti dell’Italia al termine del quinquennio del precedente Governo Berlusconi. Vale inoltre ricordare che nella finanziaria 2007 fu previsto un piano straordinario di reclutamento per ricercatori per complessivi 140 milioni nel triennio e 80 milioni annui a regime: se gli Atenei assumeranno giovani – ammesso che riescano a rientrare nei parametri determinati dal blocco del turn over – lo potranno fare solo grazie alle risorse stanziate dal Governo Prodi.

Le forze di maggioranza della Commissione VII hanno approvato un parere favorevole al provvedimento subordinato però a ben 9 condizioni che, come ben sappiano, la prassi parlamentare prevede siano accolte dal Governo e dalla Commissione referente: tra le condizione del parere, vi è anche l’esclusione dei ricercatori dal blocco del turn over.

Spiace dover constatare che i relatori del provvedimento e il Governo non abbiamo avuto la forza e soprattutto la lungimiranza di accogliere questa e le altre condizioni poste dai colleghi di centrodestra della commissione, ai quali la coerenza intellettuale imporrebbe un voto contrario al provvedimento, poiché colleghi, come ben sappiamo, gli ordini del giorno non possono compensare l’ottusa chiusura mostrata dal Governo alle richieste di motivate modifiche avanzate dai propri parlamentari.

 

Il nuovo testo dell’art. 69 – come modificato dalle commissioni Bilancio e Finanze – ha attenuato il carattere vessatorio del testo originario, ma non lo ha completamente obliterato. Ora la norma prevede un differimento di 12 mesi degli automatismi economici di carriera. Sostanzialmente un taglio agli stipendi dei professori e dei ricercatori universitari, anche se più limitato rispetto alla precedente versione.

Resta il fatto che il risparmio di spesa (peraltro coperto nuovamente con un ulteriore taglio lineare della tabella C dello 0,83%) non rimane nelle disponibilità degli Atenei ma va restituito allo Stato. Si è persa una ulteriore occasione per attuare due indirizzi annunciati dal ministro Gelmini, cioè il principio della valorizzazione del merito e il rafforzamento dell’autonomia responsabile.

Come abbiamo proposto nei nostri emendamenti originari, sarebbe bastato assicurare agli Atenei l’impiego di queste risorse per assegnare ai ricercatori e ai professori migliori, degli incentivi retributivi premiali, basati sulla valutazione della qualità dell’attività scientifica e didattica.

Insomma, alla promessa “più risorse, più meritocrazia” del Ministro Gelmini si è sostituita anche stavolta una realtà meno entusiasmante: “meno risorse e nessuna meritocrazia”.

Martedì l’on. Cota nella dichiarazione del voto di fiducia sul decreto sulla sicurezza ha esordito dicendo “quando si promette, si mantiene”: evidentemente non tutto l’Esecutivo è sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda. Alcuni ministri possono promettere e mantenere, mentre ad altri – che pur possiedono un portafoglio, almeno a parole – non è consentito di onorare quanto dichiarato ufficialmente nelle aule parlamentari.

 

Le norme che ho fin qui esaminato  prevedono tagli di risorse e di personale, in quantità tali da compromettere concretamente la funzionalità didattica e di ricerca del sistema universitario.

Ma, niente paura, a questo punto dal cilindro del decreto legge esce l’art. 16 che prevede la possibilità per le Università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato.

Come dire: una vera e propria riforma ordinamentale, definita così dallo stesso ministro Gelmini, inserita surrettiziamente nel decreto legge, benché priva di urgenza, a meno che non la si consideri il salvagente al quale le Università possono aggrapparsi per non affondare in un FFO sempre più inadeguato.

Stando alle dichiarazioni del ministro, la ragione della  nascita delle università-fondazioni sta proprio nella presunta loro capacità di attrarre capitali privati – sottoposti ad un regime fiscale particolarmente favorevole – da cui discenderebbe, taumaturgicamente, una competizione virtuosa tra Atenei e perfino una maggiore severità nella valutazione degli studenti. Si dimentica però di dire che gli studenti saranno chiamati a concorrere al finanziamento dell’Ateneo con rette di iscrizione sganciate dai tetti fissati per quelle statali e, quindi, verosimilmente più alte di quelle odierne. Questo tema si salda a quelli, completamente e colpevolmente ignorati nella previsione delle fondazioni, del diritto allo studio per gli studenti meritevoli provenienti da famiglie non abbienti e delle pari opportunità culturali e formative per le aree del Paese economicamente più svantaggiate.

Del resto, già la legge Ruberti del 1989 concede alle università una autonomia gestionale, organizzativa e contabile che il ministro ha invece annunciato come inedita e possibile solo per i nuovi enti; manca invece, nella proposta delle università-fondazioni, la definizione della governance dei nuovi soggetti giuridici.

Resta poi il nodo irrisolto della certezza e della continuità dei finanziamenti statali, che avranno fini perequativi, e il dubbio circa l’applicazione o meno di tutte le disposizioni vigenti per le università, come recita il comma 14. In questa previsione se ne ricava, quindi, che nulla dovrebbe cambiare, ad esempio, per la disciplina del personale, per la governance, per l’organizzazione interna didattica e dell’attività scientifica.  Insomma, nessuna novità è prevista circa l’attuazione di una piena autonomia responsabile.

Nonostante le ripetute e attente letture, restano pertanto oscuri i  motivi che dovrebbero incentivare la trasformazione in fondazioni.

Insomma, i ministri Gelmini e Tremonti non hanno saputo resistere alla tentazione gattopardesca di riformare il sistema universitario, coacervo di relazioni, strutture, soggetti, e prassi, limitandosi a definire una nuova cornice giuridica e senza misurarsi con ineludibili e non più rinviabili riforme per un funzionamento più efficace.

Le norme previste all’art. 16 sono, per la verità, quanto di più confuso e generico si sia letto in legislazione universitaria. Perfino i colleghi di maggioranza della VII commissione, nel già citato e inascoltato parere, hanno valutato opportuno e necessario attuare la norma mediante lo strumento regolamentare, premesso che “gli effetti della manovra sul sistema appaiono non sufficientemente definiti e non è chiaro in che modo e in che misura si applichino alle fondazioni le disposizioni vigenti in materia di università”.

Ai bistrattati colleghi di maggioranza va la nostra umana comprensione, anche se abbiamo considerato quella condizione troppo benevola e inadeguata alla gravità della situazione. L’unica cosa di buon senso da fare sarebbe stato stralciare la norma e inserirla in una apposito disegno di legge da attribuire alla VII commissione, e sul quale aprire una discussione approfondita, seria e ampia, cioè estesa a tutti i soggetti interessati, poiché a nessuno sfugge che l’opzione delle università-fondazioni rappresenta una forma spuria di parziale privatizzazione dell’Università italiana.

Nell’estemporanea proposta messa in campo dal Governo, desta poi perplessità e preoccupazione il mancato approfondimento del rapporto tra natura privata delle università-fondazioni e natura pubblica del principale o unico bene che esse amministrano, cioè la conoscenza.

La stessa Unione Europea ha più volte qualificato la conoscenza come bene pubblico e la creazione e la trasmissione della conoscenza, vale a dire proprio la missione istituzionale delle università come “inderogabile impegno pubblico”.

 

Secondo la CRUI, la Conferenza dei Rettori delle Università italiane,  la manovra nel suo complesso rappresenta “un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale”.

In analogia, gli organi accademici di molti Atenei hanno assunto prese di posizione pubbliche di viva preoccupazione. Non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di avversioni preconcette o di attacchi corporativistici ad un approccio riformatore: quello che emerge chiaramente è la richiesta di maggiore autonomia responsabile, basata sulla valutazione della didattica, della ricerca e dei servizi offerti, sulla verifica della capacità di spesa, di investimenti e di attrarre capitali privati, sulla qualità e intensità delle relazioni che gli Atenei intrattengono tanto con le comunità locali quanto con la comunità scientifica internazionale.

Tali richieste coincidono sostanzialmente con quanto enunciato dal gruppo del Partito Democratico in VII commissione, nel proprio parere alternativo al provvedimento.

A ben vedere si tratta della griglia di intenti che supporta il Patto per l’università, firmato nell’agosto 2007 e incluso nella finanziaria 2008.

Con il patto il Ministero e gli Atenei sanciscono una reciproca assunzione di responsabilità, mediante la quale il primo si impegna a trasferire adeguate risorse tenendo conto del tasso di inflazione e delle dinamiche delle retribuzioni, mentre gli atenei, sottoposti ad un efficace sistema di valutazione, si vincolano al rispetto di strategie di razionalizzazione della spesa, all’adozione di un sistema programmatorio degli interventi, al miglioramento delle qualità dei servizi e dell’offerta didattica. Con questo piano, i due criteri del finanziamento incentivante e della programmazione connessa alla valutazione trovano finalmente concreta applicazione nel nostro sistema universitario.

Per concludere, signor Presidente, quello che emerge dalla mobilitazione degli Atenei, è la richiesta di un ripensamento dei provvedimenti annunciati e la predisposizione di un piano, di una strategia che finalmente ed effettivamente ponga al centro della politica universitaria autonomia, responsabilità e valutazione, il trinomio che anche il Ministro Gelmini ha citato in audizione come fondamentale della sua azione di governo.

Bene, ora non resta che far seguire i fatti alle parole: me se i fatti si riducono ai discutibili provvedimenti del DL 112, sarà bene che il ministro e l’esecutivo ammettano il proprio errore di valutazione oppure la propria incoerenza. 

 

Manuela Ghizzoni, venerdì 18 luglio 2008

 

 

Per saperne di più sul decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 e sull’iter legislativo: http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/trovaschedacamera.asp?pdl=1386

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