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“La mia legge sul testamento biologico”, di Umberto Veronesi*

La nostra visione della salute e della malattia è stata trasformata da cinque profonde rivoluzioni che hanno cambiato il peso che la biologia e la medicina hanno sui comportamenti individuali e collettivi, e che né il pensiero filosofico, né giuridico, né politico hanno ancora saputo affrontare con l’incisività necessaria. La prima rivoluzione è la decodifica del Dna, che ha condotto la nostra conoscenza fino alla struttura più intima della vita, offrendoci la possibilità di intervenire nei suoi meccanismi; la seconda è la diagnostica per immagini, che ci permette di esplorare virtualmente il nostro corpo, identificando cambiamenti microscopici in ogni sua più remota area; la terza è la trapiantologia, che ha spinto sempre più in là i limiti della nostra capacità di riparare tessuti e aree danneggiate o malate; la quarta è la scoperta delle cellule staminali che, grazie alla loro proprietà di trasformarsi in tessuti e organi diversi, rappresentano la più grande promessa per combattere le malattie cronico-degenerative.
Da queste quattro è nata una quinta rivoluzione, quella etica, che ha visto l’affermarsi progressivo di nuovi diritti del paziente. E ha visto il passaggio da un modello paternalistico a un modello condiviso nel rapporto con il suo medico. In realtà più che di etica si dovrebbe parlare di bioetica, ricordando che il termine è nato nel 1970 con Von Potter che, nel suo Bioethics: a bridge to the future, sostiene che l’etica deve ispirarsi alla biologia dell’uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell’esistenza umana.
I nuovi problemi etici nascono proprio dalle possibilità d’intervento di una medicina moderna che ha esteso «tecnicamente» il suo spettro d’azione non solo durante la vita (quella che noi definiamo «naturale», in cui siamo coscienti, pensiamo e proviamo emozioni) ma sia prima, vale a dire nel processo d’impianto e sviluppo dell’uovo fecondato, che dopo, nella nuova condizione di «vita artificiale».
I dilemmi – tanti, complessi e di natura diversa – si possono ricondurre a una grande domanda: di fronte alle nuove possibilità di espandere i confini della medicina chi decide dove porre il limite e a quali condizioni? La tecnologia stessa? Le istituzioni? I medici?
Io penso che nessuno debba decidere per noi e che ognuno abbia il diritto di autodeterminarsi e di esprimere, in base alle proprie convinzioni (e la propria fede, se c’è) cosa vuole fare della propria esistenza, quando essa è minacciata dalla perdita del bene più prezioso: la salute. Non è un posizione facile, perché per decidere bisogna conoscere i termini della scelta, essere informati, consapevoli e maturi.
Ma è un passo inevitabile di fronte alle rivoluzioni scientifiche e intellettuali di cui abbiamo parlato, che il nostro Paese ha fatto (come il resto del mondo civilizzato) con l’introduzione del Consenso Informato alle cure, che ha consacrato anche a livello normativo il diritto del paziente ad accettare o rifiutare i trattamenti che gli vengono proposti.
Ora io penso che dobbiamo andare più in là e spostare i confini del consenso informato, così come la medicina ha spostato quelli del suo intervento, fino a tenerci in vita oltre la nostra coscienza, cioè in caso di morte cerebrale. Per questo ho appena presentato in Senato un mio disegno di legge sul Testamento Biologico, per dare la possibilità di esprimere, in condizioni di lucidità mentale, le direttive anticipate che i medici devono rispettare nel caso un danno cerebrale grave impedisca la consapevole espressione dell’assenso o il dissenso alle cure.
La mia legge riguarda il diritto di ogni cittadino di rifiutare di terminare in modo innaturale la propria vita ed è chiaramente indicata l’espressione di volontà di essere o non essere sottoposto a trattamenti di sostegno, compresa l’alimentazione e idratazione artificiale.
Quest’ultimo è un elemento essenziale perché è proprio su questo punto che la volontà del cittadino potrebbe essere equivocata. Basta ricordare il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti, per cui la gente è scesa in piazza per «non farla morire di fame», ignorando il fatto certo che Terry, il cui cervello era devastato come ha dimostrato l’autopsia, non provava né fame né sete, né alcuna emozione o sentimento. La mia legge rispetta anche la volontà del medico. Un punto specifico riguarda infatti la possibilità riservata al medico che ha in carico il paziente di non seguire le indicazioni di volontà anticipate, se questo contrasta con le sue convinzioni etiche, affidando il suo paziente ad altri colleghi.
Inoltre il «superamento» delle volontà è contemplato anche qualora in uno specifico caso si rendessero disponibili, grazie a nuovi progressi scientifici, inaspettate possibilità di terapie e recupero. Io penso sia un dovere morale del nostro Paese promulgare una legge sul Testamento Biologico come logica estensione del Consenso informato per evitare futuri casi laceranti come quello di Eluana Englaro ancora irrisolto dopo quasi vent’anni, e per dimostrare che può esistere un pensiero politico al passo con i tempi. Se l’autodeterminazione è un diritto riconosciuto, la legge deve tutelarlo in tutti i suoi aspetti.

La Stampa
*pubblichiamo in anteprima l’intervento che il senatore e illustre scienziato pronuncerà oggi a Santena, dove gli sarà consegnato il Premio Camillo Cavour

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