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“Triste il Paese che non aiuta i bambini”, di Luigi Cancrini

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un travagliato inizio di anno scolastico. Siamo di fronte ad una progressiva erosione del diritto all’apprendimento, alla socialità, all’integrazione sociale, all’autonomia dei soggetti diversamente abili in età evolutiva, così come peraltro stabilito dalla legge quadro 104/92. Quest’anno infatti i tagli alle cattedre di sostegno (13 in meno soltanto a Pisa come da dati dell’ufficio scolastico provinciale) vengono a convergere con i tagli di cui ancora non è dato conoscere l’entità all’assistenza specialistica che costituisce un altrettanto importante ausilio alla autonomia di questi soggetti. Una assistenza che negli anni è stata garantita dai lavoratori e dalle lavoratrici delle cooperative sociali con contratti a termine e senza nessuna garanzia di continuità. Tagliare questi servizi significa decretare l’impossibilità di creare percorsi formativi adeguati che puntino alle potenzialità dei soggetti disabili e concorrano al loro sviluppo. Significa lasciare sempre più soli i bambini e i ragazzi per larga parte della giornata, salvo rarissimi casi; significa trascurare i loro bisogni fondamentali, compresi quelli fisici; significa decretare che lo Stato, le Regioni, i Comuni, reputano uno spreco tutto il lavoro svolto in questi anni da docenti e operatori, un prezioso lavoro d’équipe che ora non può più essere garantito. Al di là delle pesanti ricadute in termini occupazionali, riteniamo inaccettabili questi tagli per il tipo di scuola e di società che prefigurano. Invitiamo genitori, docenti e tutti i soggetti interessati ad unirsi per creare un percorso efficace di opposizione.

Bettina
Comitato Lavoratori e Lavoratrici dell’assistenza specialistica di Pisa

Per chi fa un lavoro come il mio, il problema legato al numero degli insegnanti di sostegno attivi (o attivabili) presso le scuole italiane propone un vero e proprio paradosso. Il loro numero è, infatti, da sempre insufficiente perché moltissimi bambini e ragazzi che ne avrebbero bisogno non hanno la possibilità di utilizzare un insegnante di sostegno e perché quelli che ne usufruiscono passano con lui abitualmente (o comunque in un numero grande di casi) una quantità di ore largamente insufficiente. Più evidentemente, per dolo o per superficialità di notizie relative a questa cronica insufficienza, d’altra parte, i ministri della pubblica istruzione che si occupano di scuola dall’alto (o dal basso) di viale Trastevere altro non fanno che immaginare dei tagli ulteriori nel numero degli insegnanti di sostegno. In modo meno sfacciato della Gelmini, anche Fioroni, infatti, aveva lavorato (e inutilmente da sinistra e da destra qualcuno se ne era lamentato) in questa direzione. Segnalando l’evidenza di un problema di fondo di cui la tua lettera, cara Bettina, sottolinea di nuovo, giustamente, l’importanza. Il punto da cui conviene partire, per far comprendere anche a chi non ne è coinvolto personalmente, l’importanza di questo problema è quello legato al momento in cui degli insegnanti di sostegno si parlò per la prima volta. Siamo agli inizi degli anni 70 un tempo in cui l’organizzazione di una scuola pubblica che discrimina i più deboli era stata messa sotto accusa con forza da uomini come Don Lorenzo Milani e Bruno Ciari. Quella che entra in crisi, di fronte alle esperienze di questi e di tanti altri maestri e uomini di cultura è la pratica per cui gli alunni con “piccoli” problemi venivano separati da quelli che almeno apparentemente non ne avevano e messi in classi “differenziali” (dove si chiedeva loro e si dava loro meno di quello che si chiedeva e si dava gli altri) mentre quelli più gravi venivano raggruppati in classi “speciali” allocate, in genere, negli istituti specialistici in cui questi bambini venivano ricoverati. Quello di cui ci si rendeva conto, infatti, era che questo tipo di separazione selettiva funziona come un moltiplicatore delle differenze da cui si è partiti. Sul piano politico perché perpetua, traghettandolo da una generazione all’altra, il meccanismo di classe su cui essa si basa. Sul piano pedagogico perché ignora la grandiosità delle risorse attivabili, attraverso iniziative di socializzazione intelligenti nei bambini che presentano delle difficoltà: modeste o gravi. Sta nell’abolizione delle classi differenziali e speciali oltre che nel superamento degli istituti per minori in cui queste ultime erano organizzate (e dove i minori erano abbandonati a sé stessi, sottratti anche all’amore delle famiglie) il punto di partenza di questa nuova attività. Concepita come un aiuto da dare in classe al bambino diversamente abile nel suo sforzo di integrazione con gli altri (una integrazione che deve essere sociale ma anche il più possibile cognitiva e didattica) l’insegnante di sostegno è una presenza necessaria, nella scuola, per assicurare al bambino che apprende più lentamente per motivi di ordine culturale e sociale o per motivi più personali (dalla dislessia al ritardo cognitivo, dalla sindrome post traumatica all’autismo) l’aiuto di cui ha bisogno per tenere il passo degli altri o per staccarsene il meno possibile. Sarà l’Ocse, a metà degli anni ‘80, a riconoscere, sulla base di una rilevazione sul campo, la validità di questa esperienza italiana (e norvegese) da tanti considerata, all’estero, con grande rispetto e interesse. Saranno i governi del nuovo millennio a decretare con provvedimenti sempre più distratti e infelici la crisi che ora la Gelmini sembra voler portare a termine. Staccando la spina ad una organizzazione sempre più debole. La cosa che più colpisce oggi, tuttavia, è il silenzio in cui tutto questo accade e va avanti. L’attenzione ai problemi dell’handicap e della disabilità è sempre più debole a livello di opinione pubblica e non vi sono giornali o tg che dedicano loro attenzione. Le forze politiche si occupano con stanchi rituali di quelli che a tanti piace chiamare con un sorrisetto di sufficienza, diversamente abili. I sindacati potrebbero farne oggi un punto di forza della loro lotta contro i tagli della Gelmini ma sono stati messi in difficoltà, forse, in passato, dal carattere instabile di un lavoro che non desta sempre l’entusiasmo che dovrebbe destare in troppi dei loro iscritti ma dovrebbero affermare chiaro e forte oggi che l’integrazione non si tocca. Viviamo un tempo, cara Bettina, in cui il concetto stesso di democrazia si sta corrompendo. Per troppi, politici e non, libertà è possibilità di fare il più possibile quello che si vuole quando si ha il potere o la forza di farlo: senza preoccupazioni o pensieri sul fatto che gli altri esistono e che la libertà o è di tutti o non è di nessuno. Dimenticando con leggerezza berlusconiana (lui a suo modo offre un modello di vita) l’idea di Montesquieu (citato da Luciano Canfora, «La democrazia», Laterza pag. 101) per cui «la libertà non può consistere nel poter fare ciò che si deve volere», un’idea il cui compimento, ricco di sviluppi in molte direzioni, ivi compresa la giustizia sociale è: «nel non essere costretti a fare ciò che non si deve volere».

L’Unità, 29 settembre 2008

 

 

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