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“Nuove regole per scongiurare la recessione”, di Tito Boeri

 

 La riforma della contrattazione è come il gatto che si morde la coda. Non viene fatta perché le organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro sono divise fra di loro e al loro interno. Ma finché non viene fattala riforma, le divisioni si accentuano, le relazioni industriali continuano a deteriorarsi.

Perché il nostro paese torni a crescere, perché ci sia meno conflittualità sociale e meno disoccupazione al Sud (abbiamo saputo lunedì che è tornata al 12 per cento), è essenziale che le regole con cui si determinano i salari vengano cambiate.

Lo aveva chiesto una commissione presieduta da Gino Giugni, il padre dello Statuto dei Lavoratori, ben undici anni fa. Ci voleva, secondo la Commissione “un maggior decentramento contrattuale”, capace di attribuire al “livello decentrato competenze maggiori in temi quali la flessibilità organizzativa, l`orario di lavoro ed il salario per quanto si riferisce alla quota variabile e per obiettivi”. Da allora sindacati e Confindustria hanno giocato a procrastinare la riforma, rinfacciandosi la responsabilità dei continui rinvii. Divisi i sindacati fra di loro, spaccata C onfindustria al suo interno, con le piccole imprese federate per lungo tempo tenacemente contrarie al decentramento della contrattazione. Così le nostre conclamate parti sociali hanno fatto pagare le loro divisioni ai lavoratori, costretti a lavorare con contratti scaduti, senza quel legame fra retribuzioni e produttività che altrove permette di pagare salari più alti garantendo anche più occupazione.

Sembrava che da qualche mese finalmente le cose fossero cambiate, che ci fosse la volontà di trovare un accordo.

Dobbiamo ricrederci.

La Cgil ha annunciato che la trattativa è conclusa, rifiutandosi di discutere il documento elaborato da Confindustria dopo mesi di incontri. Vuole ripartire dal documento sottoscritto dai sindacati sei mesi fa, quindi praticamente da zero.

Confindustria, dal canto suo, ha risposto che intende andare avanti comunque, anche senza la Cgil. E` una minaccia poco credibile dato che le regole con cui vengono determinati i salari non possono essere cambiate senza il consenso del più grande sindacato italiano ed è difficile che, dopo l`esperienza dell`accordo Alitalia, Cisl e Uil accettino un accordo separato.

Ma certo siamo nuovamente in una fase di stallo della trattativa, da cui non si intravvedono vie d`uscita.

E` possibile fare qualcosa per sbloccare una trattativa essenziale per il futuro del paese? Forse sì.

Innanzitutto bisogna prendere atto delle divisioni. Ci vogliono regole che funzionino anche senza unità sindacale e in presenza di divisioni fra le organizzazioni dei datori di lavoro.

Questo significa che la trattativa sulla riforma dei contratti deve per forza di cose affrontare anche il tema della rappresentanza, definendo regole che permettano di stabilire un soggetto negoziale unico anche quando ci sono tanti aspiranti negoziatori con posizioni diverse tra di loro. Devono essere i lavoratori, con un referendum, a decidere chi tratta per loro. La Cgil ha per anni chiesto di discutere della rappresentanza, mentre Cisl e Uil hanno preferito evitare di affrontare il tema, perché temono di vedere il loro peso fortemente ridimensionato. In realtà le regole sulla rappresentanza permettono anche a sindacati individualmente minoritari di diventare maggioranza coalizzandosi con altre organizzazioni dei lavoratori.

Sono, invece, del tutto inutili gli appelli del governo alle parti perché trovino un accordo.

Anacronistico, poi, quello recapitato ieri dal ministro Sacconi che nella trattativa su Alitalia aveva soffiato sul fuoco delle divisioni. La riforma della contrattazione e della rappresentanza spetta alle parti so- ciali, ma questo non vuol dire che il Governo non possa facilitare il raggiungimento di un accordo.

Se venisse finalmente introdotto in Italia un salario minimo orario, come in molti altri paesi europei, tutti si troverebbero costretti a rivedere le regole della contrattazione salariale al più presto. Il salario minimo non solo serve a ridurre la povertà fra chi lavora, ma obbliga i sindacati e i datori di lavoro afarei conti con quei milioni di lavori che oggi sfuggono alle maglie sempre più larghe della contrattazione collettiva gestita a livello nazionale.

Utile anche decentrare la contrattazione salariale nel pubblico impiego, cominciando dal permettere che anche i salari dei dipendenti pubblici riflettano le differenze nel costo della vita fra le diverse aree geografiche.

Oggi un insegnante di Napoli ha il 25 per cento di potere d`acquisto in più di un insegnante di Milano. Su questo il governo può intervenire, in quanto datore di lavoro, in sede di rinnovo dei contratti. Infine, bene usare la leva fiscale.

Il governo può ridurre il prelievo fiscale sui salari più bassi, per esempio aumentando le detrazioni fiscali per il lavoro.

Ci sarà più margine per negoziare aumenti salariali senza far crescere i costi perle aziende.

Ed è una misura che serve anche per allontanare il rischio di una lunga recessione.

La Repubblica 2.10.08

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