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“La penisola della paura dove la tolleranza fa perdere consensi”, di Ilvo Diamanti

Il contagio razzista ha coinvolto l’Italia. Perlomeno: nel linguaggio pubblico. Fino a ieri l’altro era un tabù. Ora, invece, le autorità religiose e politiche ne parlano esplicitamente. Il Papa, il presidente della Repubblica e perfino quello della Camera, Gianfranco Fini. Leader di destra. Perfino il sindaco di Roma, Alemanno, che ha espresso le scuse della città a un cittadino cinese, malmenato nei giorni scorsi da un gruppo di bulletti. Dunque, il tabù si è rotto.

Oggi a denunciare il razzismo degli italiani non sono esclusivamente i “soliti noti”. Sinistra radicale, no global, cattolici solidali. Giornali come il Manifesto e Famiglia Cristiana. Ma ciò solleva il rischio opposto. Scivolare dalla drammatizzazione alla banalizzazione. “Allarme siam razzisti?” No, se intendiamo definire, in questo modo, l’orientamento e il comportamento degli italiani. O meglio: il razzismo c’è, in Italia, come nel resto d’Europa. Dove gli episodi di intolleranza sono numerosi e violenti, anche più che da noi. In Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Belgio, in Spagna.

D’altronde, l’importanza del fenomeno è sottolineato dai successi elettorali di formazioni politiche di impronta apertamente xenofoba. Da ultimo, in Austria, una settimana fa. La reticenza è, dunque, pericolosa, quanto la generalizzazione. Tanto più, il sensazionalismo, che sposta il fenomeno al centro dei talk show e nei titoli di prima pagina. D’altronde, gli episodi di razzismo, probabilmente, esistevano anche prima, (sempre troppo) numerosi. Ma non se ne parlava, perché le vittime, per prime, preferivano tacere. Come è avvenuto, in passato, per le violenze sessuali sulle donne e sui minori.

Ora invece il clima è cambiato e gli episodi di razzismo sembrano moltiplicarsi, anche perché – più di ieri – sono riconosciuti come tali e denunciati. Anche se, di fronte alle ripetute aggressioni ai danni di stranieri e rom, è diffusa la tendenza a sostenere che “il razzismo non c’entra”. Oppure a giustificarle: conseguenze della “legittima furia popolare” (come ha osservato Gad Lerner, su questo giornale). Invece, il razzismo c’è. La tentazione di costruire barriere fra noi e gli altri, in base a fondamenti in-fondati e in-dimostrabili. Come l’idea stessa di “razza”, d’altronde. Il razzismo c’è. Allontanarlo da noi con un gesto di fastidio, non aiuta ad affrontarlo. Il razzismo esiste: in Italia come altrove. La storia e l’esperienza non rendono immuni neppure la Germania, l’Austria o la Francia.

Tuttavia, il confronto su base europea mostra come in Italia l’allarme sollevato dagli immigrati sia fra i più elevati. Il più alto, in assoluto, fra i paesi della vecchia Europa. Come emerge, chiaramente, dall’indagine europea curata da Demos, laPolis e Pragma (in collaborazione con Intesa Sanpaolo). In particolare, l’Italia è il paese dove l’allarme suscitato dagli stranieri è più forte, relativamente alla sicurezza e all’ordine pubblico, come denuncia una persona su due. In paese dove, al tempo stesso, i “pregiudizi positivi” si attestano su livelli più bassi. Meno della metà della popolazione accetta l’immagine degli immigrati come “risorsa dello sviluppo” oppure “fattore di apertura culturale”. L’Italia, in particolare, è il paese in cui tutti gli indici di allarme son cresciuti maggiormente, negli ultimi anni. Come se qualcosa avesse abbassato le nostre difese, le nostre inibizioni. Alimentando la nostra paura. Madre del razzismo, come ha scritto Zygmunt Bauman nei giorni scorsi sulla Repubblica.

Il razzismo, allora, forse non è un’emergenza, come ha sostenuto ieri il ministro Maroni. Ma lo è sicuramente la xenofobia. Letteralmente: la “paura dello straniero”. Che ha diverse cause, comprensibili, e che vanno comprese, se la vogliamo contrastare. Una su tutte: la distanza fra rappresentazione e realtà. La realtà è che ci siamo trasformati in un paese di immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario. In poco più di un decennio il peso degli immigrati è passato dallo 0 virgola al 5-6% della popolazione. In alcune aree, soprattutto nel Nordest e nelle province più produttive del Nord, questa misura è doppia, talora tripla.

In dieci anni o poco più abbiamo raggiunto e superato paesi in cui questi processi hanno storia e tradizione assai più lunghe. Abbiamo “il primato dell’immigrazione veloce”, come hanno scritto i demografi Billari e Dalla Zuanna, in un recente saggio (“La rivoluzione nella culla”, Università Bocconi Editore). La realtà è che ci siamo adattati altrettanto in fretta. Non siamo stati travolti. In particolare, le zone dove si registrano i maggiori indici di integrazione (come sottolinea il periodico rapporto della Caritas) sono proprio quelle dove l’immigrazione ha assunto proporzioni più ampie.

Il Veneto, la Lombardia, il Friuli Venezia Giulia. Fra le province: Bergamo, Treviso, Vicenza. Dove, cioè, la Lega è più forte. Ma la rappresentazione è opposta, perché proprio qui la “paura dell’altro” è più elevata. In altri termini: abbiamo accolto e integrato milioni di stranieri – perché ne abbiamo bisogno, dal punto di vista economico, dell’assistenza, ma anche della demografia. Ma si stenta ad ammetterlo, ad accettarlo. In parte, è inevitabile. Flussi di stranieri tanto ampi e tanto rapidi generano inquietudine. Soprattutto se non sono regolati da politiche adeguate (sociali e urbane), a livello locale. Se si “permette” la concentrazione degli stranieri in ampie periferie degradate.

La paura, tuttavia, è alimentata dall’uso politico dell’immigrazione. Dal fatto che la paura degli immigrati e dei rom “paga”. In termini elettorali e di consenso. La stessa legislazione riflette questo sentimento. Si preoccupa di rassicurare assecondando la diffidenza. Promette di “arginare” gli stranieri alle frontiere. Oppure di regolarne i flussi, in base a quote irrealistiche. Con l’esito che gli stranieri continuano ad entrare, lasciando dietro sé una scia di morte che non emoziona quasi nessuno. E quando sono in Italia diventano “clandestini”. Per legge. Per la stessa ragione, si irrigidiscono le restrizioni agli istituti che rafforzano l’integrazione. Primo fra tutti: i ricongiungimenti familiari. Così gli stranieri diventano viandanti di passaggio. “Altri” da cui difendersi.


Invece di promuovere un modello – magari involontario – che ci ha permesso di “sopportare” e, anzi, di integrare flussi di immigrati così imponenti in così poco tempo, ci si affretta a negare l’evidenza. Si indossa la maschera più dura. Perché la faccia tollerante non è di moda. Fa perdere consensi. Per contrastare il razzismo, si dovrebbe, quindi, combattere la paura. Invece, viene lasciata crescere in modo incontrollato. E molti, troppi, la coltivano. Questa pianta dai frutti avvelenati, che cresce nel giardino di casa nostra.

La Repubblica 6 ottobre 2008