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“Economia della conoscenza. L’Italia è il fanalino di coda” di Pietro Greco

L’Italia scivola sempre più indietro nella corsa verso l’economia della conoscenza. Non sono solo le regioni meridionali che non ce la fanno. Ad arrancare sono anche le regioni del centro e del nord. Basta leggere il “World Knowledge Competitiveness Index 2008”, il rapporto appena pubblicato dall’università dal Centro per la Competitività Internazionale dell’Università di Cardiff, per rendersene conto.
Il documento ha classificato 145 diverse regioni nel mondo sulla base di 19 indicatori che, in qualche modo, misurano la capacità di competere nell’economia fondata sulla produzione di beni e servizi che incorporano volumi crescenti di conoscenza, non solo scientifica. In testa alla classifica ci sono otto regioni americane – l’area californiana di San Josè, la famosa Silicon Valley, è la prima assoluta, seguita dall’area di Boston – c’è una sola regione europea (l’area di Stoccolma) e una regione giapponese (l’area di Tokio).
Le regioni italiane classificate sono solo sei. Tutte staccatissime. La prima è la Lombardia: posto numero 96. Seguono il Nord Ovest (100), l’Emilia-Romagna (117), il Nord Est (119), il Lazio (123) e l’Italia centrale (126). Quasi tutte – in soli tre anni, quelle che ci separano dal penultimo rapporto pubblicato a Cardiff – hanno perso molte posizioni.
In particolare: la Lombardia, il Nord Est e l’Italia centrale sono arretrate di 12 posizioni, l’Emilia-Romagna di 15 posizioni, il Lazio addirittura di 17.
Solo il Nord Ovest mantiene le posizioni (è andato avanti di 1).
Cosa ci dicono questi dati? Premesso che non bisogna prenderli per oro colato e che non misurano tutta intera la capacità di innovazione di una regione, di un paese di un continente, ci dicono tre cose. Primo: che l’Italia non ce la fa reggere il passo del resto del mondo. Che non solo è in coda all’economia fondata sulla conoscenza, ma perde continuamente posizioni.
Secondo: che non esistono due Italie. Che non c’è un’Italia ricca e innovativa (quella settentrionale), che corre come il resto del mondo e un’Italia povera e incapace (quella meridionale), che non tiene il passo neppure con le regioni meno sviluppate d’Europa.
Terzo: che non bisogna farsi illusioni, non esistono facili scorciatoie. Non esiste “un’altra innovazione” che può fare a meno della produzione e dell’utilizzo di “volumi senza fine crescenti” di conoscenze scientifiche capace di proiettare l’Italia (o almeno l’Italia settentrionale) nel futuro.
La prima considerazione è, ormai, documentata da una sterminata letteratura e, soprattutto, da una serie di dati statistici ininterrotta e stabile da almeno due decenni. E non varrebbe la pena ricordarlo se molti – troppi – nel nostro paese non continuassero a fare come gli struzzi e a mettere la testa sotto la sabbia per esorcizzare la realtà. Da almeno due decenni la capacità relativa di produrre ricchezza diminuisce, mentre aumentano le disuguaglianze sociali e le pressioni sull’ambiente.
La seconda considerazione è, invece, più impellente. Perché di recente molti analisti vanno sostenendo che non è più possibile parlare dell’Italia. Che occorre, ormai, parlare di “due Italie” dai destini irrimediabilmente divergenti. Un’Italia – quella settentrionale – che ha un reddito pro capite paragonabile a quello dei paesi più ricchi d’Europa e una capacità di vendere prodotti sui mercati internazionali seconda, nel mondo, solo alla Cina.
Si tratta dei prodotti delle cosiddette “quattro A” (abbigliamento, arredamento, alimentari, apparecchiature industriali) che definiscono storicamente il “made in Italy” e poco importa che non siano definibili come alta tecnologia. L’importante è che vendano. Completamente diverso sarebbe, invece, la situazione del Mezzogiorno e delle Isole. Regioni tra le più povere d’Europa, dove la capacità di produrre ed esportare beni (di bassa, media o alta tecnologia non importa) è bassissima e tende persino a peggiorare.
Il problema economico dell’Italia sarebbe, dunque, unicamente quello del Sud d’Italia. E poiché nell’era della globalizzazione per il Settentrione il mercato del Mezzogiorno d’Italia non sarebbe più indispensabile, ecco che le due Italie hanno destini – economici e qualcuno ritiene anche politici – sempre più indipendenti e persino divergenti.
I dati di Cardiff ci dicono, tuttavia, che questa è una mera illusione. Non perché non esistano differenze profondissime tra le due Italie. Ma perché nessuno dei due modelli, neppure quello dello Nord, è vincente.
Chi pensa che il Nord possa salvarsi così com’è e che del Sud accada ciò che deve, si illude. Certo, i dati del “World Knowledge Competitiveness Index 2008” confermano tutta l’arretratezza economica del Mezzogiorno – che non rientra neppure nella classifica delle 145 regioni della conoscenza malgrado un’area metropolitana, quella partenopea, vanti sette diversi atenei e Napoli fosse solo venti anni fa la quinta città industriale d’Italia.
Ma dimostrano anche il Centro e il Nord fanno enormi passi indietro nell’economia della conoscenza. Che il “made in Italy” e comunque “un’altra innovazione”, diversa da quella fondata sulla produzione di nuova conoscenza scientifica e sull’alta educazione scientifica e umanistica, non bastano.
Sono utili, vanno ulteriormente sviluppati, ma non fanno pienamente sistema. Sono necessari, ma non sufficienti. Non portano né il paese né una parte del paese a reggere la competizione internazionale nel settore che tutti considerano strategico.

L’Unità 5.10.08