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«Gli studenti riscoprono Mirafiori “Non si vedevano da trent’anni”», di Curzio Maltese

Gli universitari davanti ai cancelli della fabbrica torinese. Incontro con gli operai
Solo i più anziani si fermano a parlare, i giovani scivolano muti sotto la pioggia.

TORINO – «Guarda, gli studenti! Trent´anni che non ne vedevo uno ai cancelli di Mirafiori. Dove siete stati, ragazzi?». Patrizia, operaia al reparto cambi, esce dal turno del mattino e va incontro al drappello di studenti col megafono come andasse incontro ai suoi vent´anni. È passata tanta storia davanti al cancello 20 di Mirafiori ed è trascorsa la sua vita. «Cinquantaquattro anni, trentaquattro in Fiat. Questo, se Dio vuole, è l´ultimo». Sono tanti gli operai a fermarsi, con sorpresa, al volantinaggio degli universitari torinesi. Ma sono soltanto gli anziani. I giovani, un centinaio, si stringono nei giubbotti e scivolano muti sotto la pioggia, verso il tram, casa, letto. Da lontano sembrava una scena d´altri tempi. Il fiorire di ombrelli all´uscita del turno, gli studenti col megafono, il solito cielo livido, l´eterno odore di ferrovia, le facce stanche e quelle incazzate. Da vicino si capisce che sono passati trent´anni e una rivoluzione, anche se non quella immaginata. Allora gli studenti e gli operai appartenevano a mondi lontani, ma si parlavano. Gli studenti erano travestiti da rivoluzionari, però figli di borghesi, con accento del nord. Gli operai erano vestiti normale, parlavano dialetto meridionale fra di loro, venivano da altre storie, altri luoghi, altre famiglie. Due popoli.
Oggi sembrano tutti uguali, almeno i giovani. Hanno gli stessi piercing e tatuaggi, bluse e calzoni a vita bassa. Frequentano probabilmente gli stessi locali sul lungo Po, conoscono la stessa musica, usano un vocabolario comune. Ci sono più meridionali fra gli studenti che fra gli operai. Quelli già laureati, i ricercatori, guadagnano 1000 euro al mese, contro i 1400 di uno specializzato della meccanica, straordinari compresi. Fra gli studenti c´è qualche figlio di operaio e fra gli operai qualche figlio di capo Fiat. «Perché ormai anche per entrare in fabbrica ci vuole la raccomandazione», spiega Vincenzo, 55 anni (37 in Fiat). Le facce, quelle sono diverse. Perché un ricercatore o un fuoricorso di trent´anni ne dimostra venti e un operaio di venti ne dimostra dieci di più. In ogni caso, non riescono a parlarsi.
«Oè, Peter Tosh, fai il bravo che perdo l´autobus!», dice uno e scarta di lato lo studente con trecce rasta e megafono. Il rasta ci rimane male e un anziano operaio s´avvicina per consolarlo. Si chiama Cataldo, 58 anni, «40 in Fiat». Ancora? «È per mia figlia. Per mantenersi a Legge andava a lavorare al mercato, un mazzo così per 3-400 euro al mese. Ho deciso di rinviare la pensione. I compagni giovani, sì insomma i colleghi perché compagni magari non lo sono, rimangono dei bravi ragazzi. Ma sono sotto ricatto, hanno paura di farsi vedere a far casino, per questo tirano via.».
Studenti e operai uniti nella lotta, nella Torino d´oggi, è uno slogan fuori dal tempo. «Ma i due mondi si annusano», dicono alla Fiom «e scoprono d´avere in comune lo stesso problema: il futuro». Sono stati gli operai stavolta a chiedere la solidarietà degli studenti nelle assemblee universitarie. È venuto Epifani qualche giorno fa a dire che Torino è l´epicentro della crisi. Chi sostiene ancora che l´economia reale non è stata travolta dalla “bolla” partita dall´economia di carta della finanza, dovrebbe venire qui, farsi un giro per la città più manifatturiera d´Italia, l´angolo più “reale” del Paese. Soltanto nell´ultimo mese la Motorola ha chiuso gli stabilimenti, lasciando a casa 370 persone, Pininfarina ha 1400 lavoratori in cassa integrazione a zero ore e Bertone 1224, la Seat ha annunciato 150 esuberi su 1300 posti, Daico e Michelin hanno proclamato lo stato di crisi. La città stringe la cinghia, i negozi sono deserti, quelli di via Roma come i centri commerciali in periferia.
La città guarda con il fiato sospeso a Mirafiori, spera nella tenuta della Fiat. Viale Marconi ha deciso il raddoppio della cassa integrazione da 1600 a 3200 lavoratori. «Se viene giù la Fiat e ricomincia l´incubo di anni fa, prima dell´era Marchionne, allora è la tragedia sociale, per Torino e non solo per Torino», dice Giorgio Airaudi, segretario della Fiom. Le previsioni sono nere. Secondo gli ultimi studi commissionati da viale Marconi si dovrà aspettare il 2013 per ritornare al livello di produzione auto dell´anno scorso. «Per questo penso che l´alleanza su un nuovo progetto di futuro sia inevitabile fra studenti e operai», conclude Airaudo.
Torino è da sempre un laboratorio del futuro. Qui è nata l´unità e tante altre cose, dal cinema alla televisione, dall´editoria alla ricerca applicata. Oggi il laboratorio del futuro torinese è il Politecnico, forse l´unica università davvero internazionale che abbiamo. Ai primi posti nelle classifiche europee. Il paradosso è che il Politecnico oggi lavora più per l´America che per Torino. Qui sta forse nascendo il nuovo motore che potrebbe risolvere i problemi di mercato della Fiat. Peccato che il progetto, che coinvolge nove dipartimenti del Politecnico, sia finanziato dalla General Motors. Il gigante dell´auto statunitense ha deciso di aprire proprio qui, all´interno delle mura del Politecnico, il suo più grande centro di ricerca europeo. Come si spiega l´assurdo? Lo chiedo al rettore Francesco Profumo. «La risposta è che siamo un paese per vecchi. Ed è la vera questione posta dal movimento di protesta degli studenti. La reazione a una crisi globale può essere soltanto l´investimento nella ricerca, nel futuro. Così fu nel ´29 e anche dopo. E invece qual è la risposta della politica? Quella provinciale, culturalmente miserabile, di considerare l´università un costo, invece di una risorsa». Alle due e venti il volantinaggio al cancello 20 di Mirafiori è finito, gli studenti si fermano a discutere. Marco si avvia a piedi verso la sua facoltà, Economia, a poche centinaia di metri. «Non li avevo mai percorsi prima, ma oggi è stata la miglior lezione di economia cui ho assistito nell´ultimo anno».

La Repubblica, 8 Novembre 2008