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“Pd, quelle due verità su Prodi”, di Michele Salvati

La discontinuità del nuovo partito rispetto al governo uscente e la scelta di correre da soli senza stringere alleanze a sinistra

Non ha funzionato l’idea di sfondare al centro, ma resta valida la scelta di un forte rinnovamento culturale

Per fare una buona analisi di una elezione nazionale occorre tempo. Passato questo tempo l’elezione non è più una notizia: i suoi risultati e le sue conseguenze sono stati digeriti dai media e la politica au jour le jour
prosegue inarrestabile il suo corso.
Sarebbe però un vero peccato se questo comprensibile effetto mediatico attenuasse l’interesse per Il ritorno di Berlusconi, la ricerca Itanes (acronimo per Italian National Elections Studies dell’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna) sulle elezioni del 13-14 aprile, da poco pubblicata dal Mulino. I prodotti periodici di questo gruppo di lavoro sfidano le leggi della stretta attualità, fissano interpretazioni difficilmente confutabili e soprattutto identificano problemi che continuano a riemergere e contro i quali gli attori del gioco politico continuano a sbattere la testa. Così è stato per le ricerche dedicate alle precedenti elezioni politiche, del 2001 e del 2006, e a maggior ragione lo è per quelle di quest’anno: un vero cataclisma, che ha visto una drastica riduzione dei gruppi politici presenti in Parlamento (da 15 a 9, rispetto alla precedente legislatura); la scomparsa della sinistra estrema, dei verdi e dei socialisti; un divario di quattro milioni di voti tra i due poli del nostro bipolarismo, che erano grosso modo equivalenti nelle elezioni del 2006.
Che cosa spiega questo cataclisma? Prima dei tentativi di spiegazione l’Itanes assolve un compito di descrizione accurata dei risultati elettorali: il centrosinistra ha perso perché i suoi precedenti elettori si sono astenuti di più di quelli del centrodestra; perché gli elettori guadagnati dal Partito democratico per effetto del voto utile, molti, hanno ovviamente un effetto nullo sul totale del centrosinistra essendo stati strappati ad altre componenti di questo stesso schieramento; perché il Partito democratico non è riuscito a guadagnare verso il centro e il centrodestra ed anzi perde a favore dei partiti del polo avverso circa il 10 per cento di coloro che nel 2006 avevano votato per l’Ulivo, soprattutto nel Sud.
Questi i dati principali, peraltro noti da tempo. Ma l’Itanes combina i dati elettorali con un’indagine campionaria svolta nelle settimane successive alle elezioni e li confronta con i risultati di indagini precedenti: da questo insieme nascono gli spunti interpretativi più interessanti. Sulla persistenza e variazione delle tradizioni politiche regionali. Su come ha giocato la percezione di insicurezza, e di quali tipi di insicurezza. Sul voto dei cattolici praticanti. Sulla disaffezione verso la politica. Sugli orientamenti in tema di Stato/mercato in campo economico e di tradizionalismo/individualismo in campo etico. Sulla personalizzazione dell’offerta politica e l’effetto leader.
L’analisi di questi spunti dobbiamo lasciarla ad una lettura più dettagliata di quella che è possibile svolgere qui. Ora vorrei limitare il mio commento a un solo problema, sul quale le riflessioni conclusive del rapporto possono provocare qualche perplessità.
Poco prima delle elezioni, da poco costituito il Partito democratico, Walter Veltroni calava sul piatto l’asso dell’«andare da soli» (con Di Pietro, in realtà); a questa mossa Berlusconi rispondeva con il «Popolo della Libertà» — un patto organico con Alleanza nazionale in vista della costituzione di un nuovo partito — e con un’alleanza elettorale con la Lega. Sono state queste mosse a produrre la semplificazione dei gruppi parlamentari, perché i partiti in precedenza inclusi nell’alleanza di centrosinistra, costretti ad andare da soli, non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento. Anche se quest’ultimo esito non era prevedibile, Walter Veltroni non poteva non sapere che la macchina da guerra rapidamente messa insieme da Silvio Berlusconi era poderosa: persino sulla base dei risultati delle precedenti elezioni, sfavorevoli per il centrodestra, questo schieramento prevaleva nettamente su Ds e Margherita, ora fusi nel Partito democratico; inoltre, dato il discredito del governo (meritato o immeritato che fosse) e la traumatica interruzione della legislatura, i suoi consensi erano in forte crescita. In queste condizioni «il Pd è sceso in campo cercando di trovare un difficile equilibrio tra la necessità di non dissipare il patrimonio di voti dell’area della sinistra allargata e di presentarsi come una formazione in grado di ampliare al centro il proprio bacino elettorale».
Nessuno dei due scopi è stato raggiunto. Persuaso che il giudizio negativo sul governo Prodi fosse irreversibile, Walter Veltroni ha insistito soprattutto sulla discontinuità del Partito democratico rispetto alla precedente coalizione di centrosinistra, nella convinzione che la popolarità di cui personalmente godeva potesse essere la risorsa strategica della campagna elettorale. Ora, sostiene il rapporto sulla base dei dati di sondaggio, l’impopolarità del governo Prodi non era in realtà maggiore di quella del governo Berlusconi alle soglie delle elezioni del 2006. E il tentativo di affermare una discontinuità allettante per gli elettori del centro non ha funzionato. Assai più efficace era stata la campagna di Silvio Berlusconi del 2006, largamente basata su una orgogliosa rivendicazione dei risultati del suo governo: la vittoria gli sfuggì per un soffio.
La domanda implicita è: perché Walter Veltroni non ha fatto lo stesso? Dopo tutto i risultati del governo Prodi erano almeno altrettanto difendibili (o indifendibili) di quelli del governo Berlusconi e dal passato non ci si può staccare con una semplice ridefinizione di contenitori politici (il Partito democratico) e con una pura operazione di immagine.
Ma è veramente confrontabile il Berlusconi del 2006 con il Veltroni del 2008? È confrontabile — per solidità, coerenza, e soprattutto forza della leadership — l’alleanza di centrodestra con quella di centrosinistra? E quale alternativa era disponibile per il Partito democratico: un’alleanza tipo Unione, ma questa volta tutta sbilanciata a sinistra? Forse la sconfitta sarebbe stata meno bruciante, ma non si sarebbe annullato ogni elemento di novità culturale e programmatica del neonato partito?
Senza affrontare problemi di questo genere la critica alla strategia elettorale del Partito democratico — implicita ma ben percepibile — non può essere sostenuta sulla base dei soli risultati della ricerca e rischia di dare al capitolo conclusivo un’accentuazione partigiana, da dibattito interno al Pd, che per fortuna è assente nel resto della ricerca.

Corriere della Sera del 9.12.08