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“L’occidente che tace. Da Guantanomo alla Cina, la scia dei diritti violati”, di Gabriel Bertinetto

Diritti umani, domani sono 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e Amnesty denuncia: l’Occidente ha imparato a tapparsi il naso pur di mantenere rapporti economici con le dittature. Così con la Cina o con l’Iran che minaccia di chiudere i rubinetti del petrolio.
Il mondo occidentale, dopo essere stato la culla dei diritti, non dà l’impressione di esserne ora la patria nella quale vengono universalmente sostenuti. C’è sempre un motivo per spiegare l’ignavia dell’Occi-
dente. Il caso del premio Nobel mai assegnato per motivi diplomatici al dissidente cinese Hu Jia
Il coraggio a volte uno se lo può dare. Nicolas Sarkozy sabato scorso ha incontrato il Dalai Lama, nonostante pochi giorni prima, come forma di protesta preventiva, Pechino avesse annullato un vertice con la Francia. Risalendo nel tempo, ecco il Parlamento europeo, il 23 ottobre, conferire al dissidente cinese Hu Jia il premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il giorno dopo a Pechino si apriva il vertice Asia-Europa, con la partecipazione dei capi di Stato e di governo di 43 Paesi. Le autorità della Repubblica popolare hanno contestato a viva voce l’iniziativa degli eurodeputati, ma non risulta che i commerci internazionali ne abbiano sofferto e gli imprenditori del vecchio continente abbiano perso importantissime commesse.
Eppure proprio questo è l’argomento che spesso viene portato a giustificazione della timidezza con cui i dirigenti dei Paesi democratici affrontano il tema dei diritti umani violati con i leader degli Stati in cui quelle violazioni avvengono: attenzione, potrebbero andarci di mezzo i nostri interessi economici. Oppure -si sente dire anche questo- ne verrebbero compromessi i rapporti politici a tutto danno degli equilibri strategici generali. A questo tipo di logica si era probabilmente piegato, ad esempio, sempre in ottobre, il comitato di Oslo evitando di assegnare il Nobel per la pace allo stesso Hu Jia, favoritissimo alla vigilia.
Oscillazioni opportunistiche. Comportamenti diversi od opposti rispetto a situazioni analoghe. Nell’ultimo rapporto annuale Amnesty International (A.I.) ricorda con rammarico come «nel 1948 gli Stati membri delle neonate Nazioni Unite con un atto di straordinaria leadership senza neanche un voto di dissenso adottarono la Dichiarazione universale dei diritti umani». Della quale domani ricorre il 60° anniversario. Purtroppo, constata A.I., presto «i diritti umani divennero un elemento di divisione tra le due superpotenze impegnate in un lotta ideologica e geopolitica per stabilire la propria supremazia». Archiviata la guerra fredda, i diritti umani sono tornati ad essere ostaggio di logiche di parte. «Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno trasformato ancora una volta il dibattito sui diritti umani in uno scontro frontale e distruttivo tra Occidente e non Occidente». E c’è poco da essere ottimisti se la più influente democrazia del mondo, gli Usa, ha giustificato in quel contesto i crimini di Guantanamo o Bagram.
Relativismo e atteggiamenti pilateschi sono largamente diffusi. Il balletto pre-olimpico ne è stato una «penosa e prolungata esibizione», dice Luigi Bonanate, docente di relazioni internazionali. «Un capo di Stato o di governo va alla cerimonia inaugurale, un altro no. Uno dice che non ci va e poi ci ripensa, e così via. Ora, secondo me, la questione non era tanto il disertare oppure no quel’evento, ma prendere una posizione comune. Si poteva anche decidere di andarci, ma tutti insieme, dopo avere fatto vedere chiaro al mondo che l’Occidente si rende conto che le cose in Cina dal punto di vista dei diritti umani e democratici non vanno affatto bene». Invece ci si muove in ordine sparso, e questo consente ai Paesi che sono in difetto, di giocare di sponda fra i vari livelli di severità e di coerenza da parte dei «virtuosi». Manca un governo mondiale, ma questa non può essere una scusa. In realtà, aggiunge Bonanante, «sono i Paesi che potrebbero avere un ruolo trainante all’interno dell’Onu a minarne l’autorevolezza, come avvenne quando Bush mandò il povero Powell a fare la figura del clown a Palazzo di Vetro mostrando false prove sulla disponibilità di armi di sterminio da parte di Saddam come pretesto per attaccare l’Iraq. Così l’Onu finisce per somigliare a una vecchietta che tenta di attraversare sulle strisce pedonali, senza che le auto (gli Stati membri) si fermino per farla passare».Si è timidi con la Cina, perché è una potenza politica ed un formidabile partner commerciale. Con l’Iran perché potrebbe chiudere i rubinetti del petrolio e aprire le cataratte dell’estremismo integralista fuori dai propri confini. Con la Libia, perché può soffiare sulle vele dei vascelli carichi di emigranti clandestini. C’è sempre un motivo, non gridato, per lo più mormorato a mezza voce, per spiegare l’ignavia dell’Occidente. Ma capita persino che nessuna di queste ragioni si imponga davvero, e sia piuttosto l’indifferenza o un «riflesso etnocentrico» a fare da freno. Bonanate cita il caso birmano. Un anno fa, le violenze del regime attirarono per qualche settimana l’attenzione mondiale. L’Onu e la Ue promossero iniziative diplomatiche. Ma senza il sostegno dell’opinione pubblica e dei governi, quelle missioni hanno potuto incidere poco.
da L’unità