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“Quando la fatica parla al femminile. Lavorare stanca, soprattutto le donne”, di Maurizio Ricci

Lavorare è donna. Come le donne, del resto, sanno benissimo. Gli uomini lo sanno un po’ meno. Ma i dati non lasciano dubbi. L’Istat li ha raccolti in un volumetto nello scorso settembre, dal titolo beneaugurante “Conciliare lavoro e famiglia” e non ammettono replica: trattandosi di indagini campionarie, quei dati sono stati forniti dai diretti interessati, cioè noi.

E, dunque: fra lavoro a casa e in ufficio, le donne iniziano prima, finiscono dopo, dormono meno degli uomini e delle altre europee, hanno meno tempo libero. Si sudano la giornata sette giorni su sette, senza staccare mai, neanche al weekend. Nessuna di loro, quanto torna dall’ufficio, si sbatte in poltrona, senza più muovere un dito. Mentre così fa un italiano (maschio) ogni tre. Basta questo per respingere, in linea di principio, l’idea che anche le donne restino al lavoro cinque anni di più, rinviando la pensione agli stessi 65 anni degli uomini, come Brunetta e altri sono tornati a proporre?

A discuterne, anche fra loro, sono, per prime, le donne. E, allora, vediamo com’è la situazione. Anzitutto, il superlavoro al femminile non è un’anomalia tutta italiana. Gli studiosi registrano che in nessun paese, neanche in quelli in cui la parità uomo-donna (come in Scandinavia) è più spinta, ci sono state davvero, in questi ultimi decenni, trasformazioni radicali nella divisioni dei compiti fra l’universo maschile e quello femminile.

Ma in Italia è peggio. Ed è inutile invocare l’esposizione solare, tradizioni antiche, la latitudine in genere, insomma, la cultura mediterranea. La situazione della donna nella società, in ufficio, a casa, risulta peggiore in Italia, anche rispetto ad altri paesi maschilisti e mediterranei, come Spagna e Grecia. L’Istat ha provato a misurare le differenze rispetto all’Italia di 15-20 anni fa, ma sono minime. E la politica accompagna, in piena sintonia, questo guardare indietro: l’Italia è all’ultimo posto, in Europa, anche nei pacchetti di aiuti per i figli, sia in termini di denaro che di servizi offerti, dall’asilo nido al tempo pieno a scuola. A pagare questo mix politico-sociale-culturale-economico non sono, però, solo le donne, ma tutti noi.

Il primo effetto di questo sovraccarico è, infatti, che sono di meno, rispetto agli altri paesi, le donne che se la sentono e/o riescono ad andare a lavorare fuori casa. Il numero di persone che, in Italia, lavora, in fabbrica o in ufficio, rispetto a quelli in età per farlo (gli economisti lo chiamano il tasso di attività e comprende anche i disoccupati) è infatti il più basso d’Europa, Malta esclusa: solo sei italiani su dieci hanno una busta paga o sono disoccupati. In Europa, in media, sono sette su dieci.

Ma la differenza è tutta una questione di sesso. Il tasso di attività degli uomini, più o meno, è in linea con la media europea. Sono le donne a risultare più “inattive” del resto del continente. Ovvero, a lavorare solo a casa. Da noi, questo è vero per la metà delle donne. In Europa, solo per un terzo. Questa esclusione non avviene gratis, anzi, costa parecchio. Esattamente 260 milioni di euro ogni anno. Di tanto il paese sarebbe più ricco, se le italiane andassero in fabbrica o in ufficio quanto gli uomini. La Banca d’Italia calcola, infatti, che il il Pil, il prodotto interno lordo, sarebbe più alto di oltre il 17 per cento l’anno.

Il secondo effetto è che avere figli diventa uno stress sempre meno sopportabile. Il risultato è la bassa fecondità delle donne italiane. Da trent’anni, ormai, le coppie italiane non arrivano, in media, a fare almeno due figli: il risultato è che la popolazione, tolti gli immigrati, si riduce. Si sta più larghi, è vero, ma l’Italia invecchia: ci sono troppi pensionati e troppi pochi lavoratori attivi. Quindi meno contributi per finanziare le pensioni. E il sistema pensionistico rischia di implodere.

A chi tocca l’esame di coscienza, se le donne hanno troppo da fare a casa per trovarsi un lavoro in ufficio o lavorano troppo, se vanno anche in ufficio? Anzitutto alla politica. Avere figli molto piccoli e riuscire a mantenere una busta paga è un pesante gioco di prestigio. Solo il 6 per cento dei bambini italiani sotto i 2 anni ha un posto (gratis) in un asilo nido pubblico, per nove ore al giorno. In Belgio siamo al 30 per cento, in Francia al 40, in Portogallo al 12 per cento.

E’ un panorama, comunque, diseguale: le mamme inglesi ed olandesi stanno peggio delle nostre, in Germania poco meglio. L’Italia non brilla, tuttavia, neanche per la qualità degli asili nido: nell’apposita classifica siamo al decimo posto su 15. In Danimarca, ad esempio, c’è un insegnante ogni tre bambini, da noi ogni sei. La situazione migliora per i bambini più grandicelli: l’87 per cento degli italiani fra i 3 e i 6 anni ha un posto in una scuola materna pubblica, una percentuale in linea con la Francia e migliore di molti altri paesi.

Ma peggiora di colpo, quando si arriva alle elementari. Il grosso degli scolari italiani torna a casa all’ora di pranzo e, se mamma lavora, o è a part time o ci vuole nonna. Il tempo pieno è una realtà di massa solo nelle grandi città del Centro Nord, dove copre circa la metà degli scolari.

L’altro esame di coscienza, naturalmente, tocca a mariti e padri. Se si guarda alle coppie con figli sotto i 6 anni, si vede che, in media, fra casa e ufficio, mamma lavora 9 ore al giorno. Papà, otto. La differenza è tutta nel lavoro familiare. Il 30 per cento degli italiani (maschi) a casa non fa neanche un minuto di lavoro per la famiglia: solo l’8 per cento dei padri svedesi e il 19 per cento di quelli francesi non vede motivo per rendersi utile.

E’ un quadretto vecchio di secoli: papà in poltrona e mamma in piedi con la scopa. Ciò che conta è che è sempre lo stesso. In casa, dicono gli studiosi, la situazione in Italia è “inalterata”. Di fatto, se si confronta la situazione a fine anni ’80 e quella di oggi, le differenze complessive sono minime. Le italiane dedicano al lavoro familiare, in media, 5 ore e 20 minuti ogni giorno, un’ora in più di francesi e tedesche, mezz’ora in più delle spagnole. E la domenica? Uguale, anzi un po’ di più: 5 ore e 32 minuti. E papà, intanto? In media, dedica al lavoro familiare un’ora e mezza al giorno, più o meno quanto uno spagnolo, ma tre quarti d’ora in meno di francesi e tedeschi.

La domenica è un po’ più impegnativa: al lavoro in casa, il maschio italiano dedica, in media, due ore del giorno di festa. Ma di quale lavoro familiare stiamo parlando? Grosso modo, papà va di trapano e martello, ripara elettrodomestici, pianta quadri nel muro e sorveglia le gomme della macchina di famiglia. Pulire, rassettare, preparare i pasti è, per il 90 per cento delle famiglie italiane, un lavoro da donne. Anzi, un lavoro esclusivamente femminile, se parliamo di lavare panni o stirare.
L’Istat coglie qualche barlume nuovo. Se papà è laureato (e mamma pure), il contributo in famiglia sembra essere più sostanzioso, soprattutto per quanto riguarda la cura dei figli che, peraltro, a ben vedere, è sempre meglio che fare il bucato. Piccoli segnali, comunque, limitati alle fasce più alte di istruzione. Forse, il problema è la riforma della scuola.

La Repubblica, 17 dicembre 2008

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