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Uniformarsi a Ue su donne? Sì ma in tutto. Più servizi, più contributi figurativi, più sostegno dopo nascite

Sulle donne uniformarsi alla Ue? Siì ma in tutto, non solo sull’età pensionabile. In un articolo su ‘Il Cerino’, la rivista on line del Cer – Centro Europa ricerche (clicca qui per leggere l’articolo di Laura Dragosei “La pensione delle donne: uniformarsi all’Europa? Sì, ma in tutto!), si mettono in luce “i fatti” che “giustificano” la differenza in Italia nell’età pensionabile tra uomini e donne: lo scarso sostegno economico alle madri con figli piccoli, le differenze salariali tra i due generi e dunque i rispettivi profili contributivi, i bassi tassi di occupazione, e anche gli inadeguati servizi alle famiglie.
L’Unione europea, ricorda il ‘Cerino’, chiedeva agli stati membri di monitorare se eventuali differenziazioni normative tra uomini e donne in campo pensionistico (età, reversibilità, contribuzione figurativa), trovassero ancora giustificazione. Molti paesi Ue, si legge nell’articolo, “hanno recentemente eliminato tale differenziale, mentre hanno incrementato i riconoscimenti per i periodi di cura dei figli in termini di contribuzione figurativa”.
L’Italia invece, fa notare Laura Dragosei, non ha fatto altrettanto. Innanzitutto ci sono da “considerate le più generose forme di contribuzione figurativa per la crescita dei figli offerte nella maggior parte dei paesi europei, che hanno già equiparato l’età di pensionamento” e “prescindendo dalla tutela della gravidanza/maternità (cioè per il periodo a ridosso della nascita) che esiste in tutti i paesi considerati, è utile analizzare la disponibilità o meno di congedi parentali retribuiti e/o l’esistenza di periodi di contribuzione figurativa per i periodi di cura dei figli”.
Ecco alcuni esempi per dare un’idea: in Francia alle lavoratrici madri vengono riconosciuti 2 anni di contribuzione figurativa a figlio e fino a 3 anni (a scelta tra madre e padre) per i periodi di congedo parentale, oltre ad un eventuale supplemento di pensione (pari al 10% in più) per chi abbia avuto almeno 3 figli. Anche in altri paesi sono previsti periodi, più o meno estesi, di congedo parentale coperti da contribuzione figurativa: essi sono possibili in Irlanda in cui vengono riconosciuti periodi di contribuzione figurativa per la cura dei figli fino a 12 anni o per parenti disabili; in Germania fino ai 10 anni di vita del bambino; in Svezia viene dove viene erogato un sussidio ai uno dei due genitori in alternativa per un periodo massimo di 480 giorni a figlio; in Spagna per un anno di assenza dal lavoro fino ai 3 anni di età del figlio; in Grecia poi viene riconosciuto da 1 fino a un massimo di 4 anni e mezzo di contribuzione figurativa, in relazione al numero di figli avuti; infine ampi riconoscimenti in termini di contribuzione figurativa vengono ammessi nel Regno Unito a favore dei care geevers in senso ampio.
E l’Italia? C’è solo, grazie ad una legge del 2000, lo strumento dei congedi parentali per uomini e donne in favore dei soli lavoratori dipendenti per un periodo complessivo fino a 11 mesi. I congedi sono retribuiti al 30% dello stipendio, fino ad un massimo di sei mesi cumulativi per madre o padre, oltre i quali li prende sono chi può permersi di rinunciare allo stipendio. E solo di recente, con la Finanziaria per il 2007, l’istituto è stato esteso anche ai lavoratori autonomi per un massimo di 3 mesi.
C’è poi da considerare, prosegue la Dragosei, i differenziali salariali tra uomini e donne e il basso tasso di occupazione femminile nel nostro Paese che “risente di una scarsa partecipazione al mondo del lavoro della componente femminile, che determina un fenomeno di auto-selezione di questa parte della forza lavoro”. E le differenze nel rischio di povertà e nei redditi di maschi e femmine alle diverse età che possono registrare un ampliamento nel differenziale di “genere proprio nell’età della pensione”. La conseguenza, conclude ‘Il Cerino’, è che la “discontinuità contributiva o semplicemente le più ridotte storie contributive complessive delle lavoratrici, si riflettono pesantemente a fine carriera determinando la maturazione di importi pensionistici assai più ridotti rispetto a quelli maturati dal capofamiglia maschio”.
A sostegno di questi fatti, la ricercatrice riporta uno studio condotto dalla Banca d’Italia, secondo il quale su un campione di donne nei due anni immediatamente seguenti la nascita di un figlio si evidenzia come “ben il 20% delle donne che lavorano lasci l’impiego dopo la nascita di un figlio, mentre appena il 4% inizi a lavorare dopo questo evento. Inoltre circa il 70% degli abbandoni dell’impiego, in questo periodo di tempo, sono imputabili a dimissioni volontarie”.
Per il futuro del nostro Paese, conclude la ricercatrice del Cer, “sarebbe dunque necessario impegnarsi in primo luogo per migliorare i servizi per le famiglie (asili nido, assistenza agli anziani e così via) e contemporaneamente aumentare i riconoscimenti in termini di contribuzione figurativa per i periodi dedicati alla crescita dei figli, al fine di favorire una maggiore occupazione femminile e carriere contributive più ricche per le lavoratrici”. Non si può “rischiare che le donne italiane vengano penalizzate ulteriormente (aumento obbligatorio dell’età di pensionamento) senza ricevere le dovute compensazioni”.

Agenzia APICOM