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“Bobbio, l’indignazione civile dell'”altra Italia” che ci manca”, di Marco Revelli

Cinque anni fa, il 9 gennaio del 2004, si spegneva a Torino Norberto Bobbio. Da tempo aveva cessato di esprimersi pubblicamente. Di accompagnarci con le sue analisi e il suo pacato ammonimento. Sul silenzio pubblico degli ultimi anni di Bobbio, determinante era stato,senza dubbio, il peso dell’età.Non sopportava quella troppo «lunga, e sospirata, attesa della morte» di cui aveva scritto nel suo testo più tragico, il “De senectute”.a
“Quel «di più di vita» di cui si lamentava con gli amici, diventatogli tanto più insopportabile dopo la scomparsa di Valeria, la compagna di tutta la sua vita. Ma lo tormentava, forse altrettanto, la vista del degrado pubblico.La sofferenza che lo spettacolo del Paese gli provocava.

“Nella prima parte del “De senectute”, analizzando le tappe «storiche» del suo invecchiamento, gli “eventi collettivi che determinano il salto generazionale, ne aveva indicato due: la «grande contestazione» della fine degli anni 60, il «Sessantotto» insomma, «quando sorse una generazione ribelle ai padri» e – scrive – «mi sentii improvvisamente invecchiato (ero sulla sessantina); e la «grande trasformazione» degli anni 90: la «seconda crisi storica, ben più grave» della prima,«avvenuta nel mondo con effetti gravi anche per l’Italia».

Ma mentre alla prima – aggiunge – poteva essere attribuito un carattere per così dire fisiologico, «da questa seconda – confessa – sono uscito, come molti miei coetanei, tramortito, molto più che dalla prima, tanto da avere la sensazione di sopravvivere a me stesso». Come tanti suoi coetanei, che avevano costruito con lui la nuova Italia, della Repubblica e della Costituzione, e che avevano avuto  in sorte di sopravvivere alla loro creatura  – come Galante Garrone, Giorgio Agosti, Franco Venturi… , stentava ogni giorno di più a riconoscersi nel proprio Paese.

Aveva sollevato scandalo la sua dichiarazione, nel 1992, quando il giudice Falcone fu assassinato dalla mafia: «mi vergogno di essere italiano». «Di fronte a questo nuovo assassinio – aveva aggiunto – provo un senso di vera e propria stanchezza morale».  Ricordava, in qualche misura, l’espressione che quasi un secolo e mezzo prima, nello Zibaldone, Giacomo Leopardi aveva impiegato a proposito della nostra identità nazionale e di una sua possibile rigenerazione: «Se noi vogliamo risvegliarci una volta e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere non la superbia né la stima delle cose presenti, ma la vergogna.

LA RIBELLIONE
“E tuttavia, quando nel 1996 la Lega nord di Bossi aveva rilanciato la propria idea di «secessione» con la grottesca cerimonia alle sorgenti del Po, aveva avuto un moto, opposto, di ribellione scrivendo un articolo dal titolo “Perché voglio restare italiano”: «Sono atterrito dalla povertà degli argomenti di questi personaggi e dalla volgarità del loro linguaggio. Se l’Italia diventerà uno Stato federale, io, abitante della Padania, continuerò a essere anche cittadino italiano».In realtà quello che lo sconcertava e sconfortava (Sconcertato e sconfortato è il titolo di una sua lunga intervista dell’aprile del 2000 su La Stampa) era la sensazione, per molti versi la certezza, del ritorno prepotente, aggressivo, travolgente di un’Italia incivile,antica e sempre rinnovantesi – la «sempiterna Italia dei furbi e dei servi», la definirà -, che la sua generazione aveva dovuto, con sacrificio, combattere, dopo averla sconfitta dentro di sé. Era, in sostanza, l’idea che nel collasso della Prima Repubblica, nel fallimento delle consolidate culturepolitiche democratiche, si aprisse un vuoto profondo, inquietante, nel quale finivano per riemergere, insinuanti, i vecchi vizi della nostra peggiore tradizione, tutte le tare storiche della nostra fragile e incompiuta democrazia – quelli che già Piero Gobetti aveva identificato quando aveva indicato nel fascismo l’«autobiografia della nazione: prepotenza in alto e servilismo in basso, soperchieria e infingardaggine, astuzia come suprema arte di governo e furberia come povera arte di sopravvivere, il grande intrigo e il piccolo sotterfugio. La solita recita del reciproco inganno».

È significativo che in quel 1992 in cui proclamava la propria «vergogna di essere italiano» Bobbio abbia pubblicato ben tre articoli con nel titolo la parola «disfatta» (uno di questi rinunciò a pubblicarlo per l’eccessivo «pessimismo» che esprimeva). Ma è il 1994 l’anno della dura conferma. Sono le elezioni del marzo di quell’anno l’«evento» nel quale si materializzano i peggiori presagi, con la vittoria di una coalizione in cui si raccolgono lo sciovinismo regionalistico della Lega e il nazionalismo autoritario dei post-fascisti di An. Soprattutto con l’emergere inatteso, e trionfale, di un soggetto politico come Forza Italia:un «partito fantasma» lo definirà Bobbio,un «partito non-partito», privo dei regole interne e di strutture collettive. Un partito «di massa e personale», antitesi nella sua stessa struttura del metodo democratico così come egli lo concepiva: un «partito eversivo» lo definirà, non per l’ideologia che professa ma per lo stile che inaugura. E di un leader-padrone come Berlusconi, incarnazione fisica del «demagogo» se non addirittura dell’«uomo tirannico» secondo la definizione che se ne dava nella Grecia classica («Berlusconi in fondo,come il tiranno classico – scrisse -, ritiene che per lui sia lecito quello che i comuni mortali sognano. La caratteristica dell’uomo tirannico è  credere di potere tutto»). Lo indignava lo stile dell’uomo, l’uso pubblicitario del «carisma», la vocazione «cesaristica» – «lui è l’Unto del Signore (e i vescovi italiani lo hanno lasciato dire), il suo principale avversario è un Giuda; lui fa dire ad Ambra giovinetta prima maniera durante la prima campagna  elettorale “Il Padreterno tifa per Berlusconi perché Occhetto è un demonio”; lui in pubblico, davanti a milioni di spettatori, per asseverare una sua verità, giura sulla testa dei suoi figli; lui è uno che “ha sempre ragione”…» – in cui intravvedeva minacce mortali per il costume democratico e per le sue istituzioni.

UNA SPARUTA MINORANZA

Per oltre un quarantennio, dalla nascita della Repubblica in poi, Bobbio era stato la voce di quella purtroppo ristretta schiera di italiani che costituirono l’«Italia civile»: una «sparuta minoranza – così l’ha descritta – di nobili spiriti che hanno difeso strenuamente, alcuni sino al sacrificio della vita, in anni durissimi, la libertà contro la tirannia, la tolleranza contro la sopraffazione, l’unità degli uomini al di là delle razze, delle classi e delle patrie contro la divisione tra eletti e reprobi». Vi appartennero uomini come PieroGobetti e Gaetano Salvemini, Calamandrei e Galante Garrone, Leone Ginzburg e Augusto Monti, Aldo Capitini e Eugenio Colorni… Non vinsero quasi mai. Ma furono loro, nei momenti della caduta del proprio paese, della vergogna e della crisi, a riscattarne la dignità. Ora, quella voce ha taciuto. Di quell’Altra Italia si stanno perdendo le tracce, travolta dal frastuono televisivo, dal  sensazionalismo mediatico e da un nuovo cinismo dilagante.

Ci mancherà terribilmente.

L’Unità 08.01.09