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“Meritevoli beffati”, di Roberto Rossi

Antonio Metastasio è stato sempre bravo in matematica. Dal liceo scientifico Renato Donatelli di Terni, città dove è nato 33 anni fa, fino all’Università di Perugia, dove si è laureato nel 2000 in medicina, la materia non ha mai rappresentato un mistero per lui. Eppure Antonio tra le tante equazioni che ha ripetuto nel corso dei suoi studi di sicuro non si è imbattuto in quella ideata da Michael Young. In Italia, per la verità, pochi ne sanno l’esistenza. Young è inglese o, meglio, era visto che è scomparso nel 2002. Di professione sociologo. Per i suoi lavori nel 1978 ottenne il titolo di barone di Dartington.

Tra i tanti lasciti anche il calcolo della meritocrazia. Una semplice equazione: I + E = M. Dove I rappresenta l’intelligenza, ovvero l’insieme delle capacità di una persona e della sua inclinazione ad essere leader; E l’effort, e cioè l’impegno legato al comportamento di una persona; il risultato totale è M, il merito, che può venire più o meno riconosciuto da chi dirige. In Italia pochi conoscono questa formula poiché in pochi la applicano.

Secondo Roger Abravanel, ex manager alla McKinsey e autore di un fortunato libro intitolato proprio «Meritocrazia», l’Italia è un paese malato di «familismo amorale» e di «mal di merito». Dove la mancanza di opportunità spesso si traduce in un disagio generazionale. Il risultato? Scarso dinamismo, propensione al rischio molto bassa, mobilità sociale in parabola discendente. Che vuol dire peggioramento delle condizioni di vita rispetto a chi ci ha preceduto, ai nostri genitori. Secondo l’ultima relazione annuale di Banca d’Italia il 53% dei figli resta imprigionato suo malgrado nel ceto in cui è nato e se si muove, come ci spiega il professore di Mobilità sociale alla Statale di Milano Antonio Chiesi, «spesso lo fa per un mestiere più dequalificato». C’è chi si è organizzato, come i ragazzi di Next, l’associazione che in primavera riunirà una commissione nazionale di 111 membri per lanciare progetti pilota a favore della «nuova generazione», c’è chi ha deciso, invece, di cercare la propria strada fuori dai confini nazionali.

LA TELEFONATA

Una mattina di maggio di quattro anni fa a casa di Antonio squilla il telefono. In linea l’ospedale di Newcastle e una proposta di assunzione, a partire dal giorno seguente. La valigia la fa in un’ora, per salutare i parenti ci mette un po’ di più. La sera stessa è su un volo Easy Jet. Alle spalle l’Italia, l’Umbria e anni di guardia medica a Montecastrilli, Acquasparta, piccoli paesi di provincia, a sette euro l’ora, «dieci la domenica»; davanti l’Inghilterra del Nord, un ruolo di fiducia in un primario ospedale britannico e mille sterline alla settimana, seimila euro il mese, «lorde» ci tiene a sottolineare Antonio. Ma soprattutto la possibilità di fare vedere chi sei. «In Italia non c’erano fondi per la ricerca, la mia carriera era senza prospettive. Bloccato per almeno cinque anni. Allora decisi di iscrivermi all’ordine dei medici inglese, il General Medical Council».
La legge britannica impone agli ospedali che presentano carenze di medici di utilizzare supplenti. In Inghilterra non guardano alla nazionalità. Ma alla bravura. «Sono entrato con un grado di responsabilità presso il reparto di geriatria». Il contratto è di tre mesi. Ma a Newcastle ci rimane poco più di uno. A giugno Antonio ottiene l’iscrizione a Cambridge per la specializzazione. Sei anni di contratto, 35mila sterline lorde di base, e la certezza che quando esci sei a capo di un team «diventi consultant, la figura apicale nella medicina inglese». Da Cambridge viene gente di tutto il mondo. È difficile che poi faccia il percorso inverso. Come Antonio. «L’Italia mi manca moltissimo, ma non torno».

E PERCHE’ POI DOVREBBE

In Italia il laureato guadagna una miseria. Secondo i dati di AlmaLaurea, il Consorzio di Atenei italiani che rende disponibili on line i curriculum vitae dei giovani talenti, lo stipendio medio di chi esce dall’Università è di 1000 euro il mese che raggiungono i 1300 dopo cinque anni. Circa l’8% in meno di quanto uno studente guadagnava nel 2001. E chi ottiene uno stipendio può dirsi fortunato. «I due anni di praticantato – spiega Daniel D’Angeli 31 anni, laureato in giurisprudenza alla Sapienza di Roma – non erano sostenibili per me. Niente rimborsi spese, irregolarità varie e scarse prospettive alla fine mi hanno spinto a cambiare strada». Niente più avvocato ma un posto in banca. Sempre meglio di quello che è accaduto a Nicoletta Crosato 27 anni, laurea in lingue straniere all’Università di Padova, ma solo un lavoro come commessa e poi uno stage presso un’agenzia di viaggi. O di Giorgia Pecchi, 25 anni laureata con lode a tempo di record in Giurisprudenza presso l’università di Roma Tre, che sogna di diventare magistrato e che intanto si mantiene con una rubrica giuridico-sanitaria su una rivista medica.

NON TORNO

Giorgia è una dei tanti laureati che si è mossa per iniziativa personale. Su cento studenti lo fanno in trenta, altri venti per cercare lavoro utilizzano conoscenze familiari o segnalazioni. Solo in 4 cercano di iniziare un’attività autonoma e solo 8 vengono chiamati direttamente dalle aziende. In Inghilterra ad esempio, funziona diversamente come racconta Andrea Gazzola, 29 anni di Castelfranco Veneto laureato a Padova in Ingegneria marittima.
«Grazie all’Erasmus ho studiato per un nove mesi a Sheffield. Sono tornato in Italia per la tesi e poi sono volato nuovamente in Gran Bretagna». Dove in due mesi ha avuto nove proposte di lavoro. «Se tornassi a casa non troverei nulla di paragonabile». Perché farlo allora? Se lo sono chiesti in molti tra i tanti ragazzi che hanno mandato il curriculum ad AlmaLaurea. Giorgia Nobile laureata al Dams, ad esempio, è volata a Barcellona, «perché senza conoscenze capita che non entri nemmeno a fare uno stage». Fulvio Paolocci, laurea con lode in scienze della comunicazione a Roma, ha scelto invece l’America dove da due anni dove fa il producer televisivo e, nel frattempo, ha ottenuto un master di giornalismo alla Berkeley. Scelta obbligata visto che dopo vari anni di gavetta «al Tg2, alla Cnn, all’Associated Press» di Roma non ha trovato spazio. Marina Rosetti, 27 anni, è invece un ingegnere civile laureata a Torino al Politecnico. Oggi lavora a Nizza, ma prima a Losanna e Londra. Se ne è andata perché «all’estero avevo proposte più qualificate».
Pietro Papini, invece, a 24 anni, la proposta l’ha avuta subito dopo la laurea con 110 e lode in Economia aziendale a Firenze. «Sono stato chiamato da una società di auditing». Otto mesi di lavoro senza stipendio gli altri quattro pagato con 500 euro al mese. Dopo un anno il contratto a tempo determinato per 22mila euro lorde. «Mi sono detto: chi me lo fa fare?». E mentre lo dice pensa all’America dove si trasferisce per frequentare un master in business administration. «Negli Stati Uniti un laureato con un master riceve come primo stipendio lordo intorno ai 95 mila dollari. Senza master 60mila». Lui è tra i primi. Il lavoro arriva subito dopo presso la Bank of America Securities.

CHI SCENDE, CHI SALE

L’assenza di merito ha un costo. Ogni anno la rivista on line doingbusiness.org redige una classifica di quali siano i paesi in cui è più facile creare e gestire attività economiche. L’Italia è 65esima, distanziata dai cugini tedeschi e francesi, rispettivamente in 25-esima e 31esima. Questo perché spesso le attività economiche non vengono create ma ereditate determinando, tra le altre cose, una scarsa mobilità sociale. AlmaLaurea l’ha calcolata mettendo in relazione l’ultima posizione nella professione paterna e quella del figlio. Ad esempio il 16% dei figli di dirigenti o quadri direttivi è, già dopo solo cinque anni dalla laurea, dirigente o quadro direttivo contro il 13 % medio di tutti i laureati maschi; il 34% dei liberi professionisti è libero professionista (contro il 20% per cento medio), il 10% dei figli di imprenditore è imprenditore (contro il 3% medio). Con scarsi risultati, tra l’altro. Secondo uno studio redatto dal professore Marco Cucculelli e da Giacinto Micucci (Banca d’Italia), condotto su 3.500 imprese manifatturiere prevalentemente Pmi, la successione da padre a figlio di aziende comporta una calo di redditività. Calcolato in 2,4 punti per il utili sulle attività e in 1,7 per quello sulle vendite. Segno che in Italia neanche Young avrebbe fatto fortuna.

L’Unità, 13 gennaio 2009

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