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“Violenza e protezionismo. È la crisi che genera i nostri nuovi mostri”, di Loretta Napoleoni

Cosa lega la crisi economica che si è abbattuta sul villaggio globale e le manifestazioni xenofobiche degli ultimi giorni? Un filo diretto e invisibile accomuna il gesto incomprensibile di tre ragazzi che per provare una forte emozione danno fuoco ad un barbone nella stazione di Nettuno e gli scioperi selvaggi che imperversano in Inghilterra contro i lavoratori stranieri; e questo legame, paradossalmente, lo ritroviamo anche nelle stanze del potere della nuova amministrazione americana, che propone un programma di salvataggio economico condizionato all’acquisto di prodotti «esclusivamente» americani. Ben tornati nella tribù! Poiché questo è lo slogan con il quale si apre il recessivo 2009.

Di fronte ai primi veri problemi economici la globalizzazione si sgretola. Tendenze protezioniste minano il WTO, gli accordi faticosamente stipulati dall’organizzazione mondiale del commercio sembrano ormai carta straccia, anche i fondamenti dell’Unione Europea sono messi a durissima prova dagli scioperi in Gran Bretagna. A Davos, tempio sacro della globalizzazione, Russia e Cina apertamente accusano l’America di non saper «guidare il mondo» ed a Washington le fronde protezioniste fanno stragi di liberal al congresso.

Alla base di queste reazioni, che soltanto sei mesi fa’ sarebbero state reputate assurde, c’è la paura. La paura della disoccupazione spinge un sindacato laburista a schierarsi con la destra nazionalista e antieuropea britannica e la paura che l’America precipiti nella seconda Grande depressione convince il primo presidente afro-americano a proporre riforme protezioniste. E infine la paura, non la noia o la droga, motiva i giovani italiani a commettere un crimine da Arancia Meccanica.
Il mondo globalizzato è un pianeta che spaventa, popolato da gente terrorizzata dal diverso e dalla diversità. Ce ne stiamo accorgendo solo adesso che la recessione ci accomuna nella disgrazia, ma da vent’anni chi vive ai margini del villaggio globale – dove il processo di omogeneizzazione non ha portato pace e prosperità ma il proliferarsi delle guerre o il dilagare della povertà – convive con questa paura. Molti, specialmente i giovani, si sono protetti ricreando la struttura tribalista dei branchi.

Dalle Maras centro americane alle gangs britanniche, dalle bande di adolescenti Nigeriane fino alle cellule jihadiste, il branco è la risposta ai timori ed alla minaccia della globalizzazione. E la matrice comune del nuovo tribalismo è, naturalmente, la violenza. Le bande oggi come ieri combattono la paura con la violenza, e la violenza è ormai diventata uno stile di vita. In un documentario britannico, Gang Wars (guerre tra bande), il leader di una banda londinese, Taba, sostiene che la violenza «durerà per sempre, perché è la gente a essere violenta».

La violenza simboleggia anche l’onore e l’orgoglio, l’identità del singolo e il metro per decidere l’appartenenza o il rifiuto di entrare in una banda. Per essere ammessi nelle moderne tribù è necessario superare un duro rito di passaggio. Gli aspiranti mareros si sottopongono a una complessa e dolorosa prova, che ricorda quelle imposte dalle sette sataniche medievali.
Devono uccidere un membro di una banda rivale o assistere a un’esecuzione. «La prima volta che ho visto una decapitazione avevo dieci anni. Per un mese intero sognai il morto che veniva verso di me con la testa tra le mani. Poi, con il tempo, ci si abitua agli omicidi e quando capita che un tuo amico uccida uno di un’altra banda sei contento, anzi lo tormenti pure mentre sta morendo. Ti diverti». Racconta Necio un ventenne membro di Mara Salvatrucia, una banda di El Salvador. La violenza è dunque anche sinonimo di divertimento, ed il comportamento dei tre delinquenti italiani ne è la riprova.

La paura del diverso serpeggia da anni anche nel villaggio globale, la ritroviamo nel lessico della guerra contro il terrorismo. La politica della paura del presidente Bush ce lo ripropone, anzi lo catapulta nell’arena politica internazionale. Pensate al suo famoso discorso all’indomani dell’11 settembre. Bus divide il mondo in due gruppi: «chi è con noi e chi è contro di noi». Una frase che secondo il Guardian è la più cruda espressione della politica tribale mai concepita». Come possiamo definire loro e noi se, ad esempio, gli attentatori suicidi di Londra erano cittadini britannici? La nazionalità, il vecchio nazionalismo quindi, non è più l’unica causa determinante né una categoria valida. Il tribalismo sembra adattarsi meglio al nuovo scenario.

Anche senza volerlo noi finiamo per assimilare il lessico tribale e quando ci sentiamo minacciati, a reagire sono i nostri istinti tribali. Cosi chi sciopera in Scozia contro i lavoratori italiani e portoghesi dichiara apertamente che sciopererebbe anche se questi fossero inglesi o gallesi, lo sciopero mira infatti a proteggere la forza lavoro locale. E la solidarietà manifestata da altri lavoratori nel territorio di sua maestà ha gli stessi obbiettivi: proteggere il proprio orticello. Il pericolo è quindi che anche il tessuto nazionale delle organizzazioni sindacali, già seriamente indebolito dal governo Thatcher, si sgretoli completamente.

Sono scenari questi agghiaccianti, che ci devono far riflettere sull’involuzione in atto in un pianeta in preda alla recessione. Poco meno di un secolo fa’, il crollo di Wall Street fece precipitare il mondo nella Grande depressione, preludio della follia nazista che sfociò nella seconda guerra mondiale. Anche allora a guidare l’ascesa del nazismo sulle ceneri della repubblica di Weimar fu la paura del diverso, uomini donne e bambini con in petto una stella di Davide gialla. Anche a casa nostra c’erano i diversi, appartenevano al movimento operaio perseguitato dalle camicie nere. La simbologia cambia ma la sostanza resta: la paura è un grandissimo strumento di manipolazione collettiva, e quindi è solo questo che dobbiamo temere perché domani i diversi potremmo essere proprio noi.

L’Unità 03.02.09

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