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“Povertà senza rete”, di Bianca Di Giovanni

La Social Card è troppo poco? Sempre meglio di niente». Il Tremonti-pensiero sulla lotta alla povertà è chiarissimo: dare una mano a tentare di sopravvivere. E basta. Per il resto, la classe media è lasciata a faticare per farsi largo, i ricchi a godere delle loro rendite. La visione ha padri noti (per dirne due: Reagan e Thatcher) e nemici altrettanto conosciuti: quelli che credono nella redistribuzione. Negli Usa ci ha appena pensato Barack Obama a sotterrare la tesi della «carità», che alla fine lascia i poveri nelle stesse condizioni di prima (se non peggiori), e proietta i ricchi verso livelli sempre più alti. E in Italia? A che punto è la lotta alla povertà?
Da noi lo Stato non va oltre misure una tantum: a volte ben congegnate, ma per ora assolutamente inefficaci. Sulla povertà c’è il fallimento totale della politica. Il motivo, secondo gli esperti sta in una grande assenza, che si protrae ormai da anni. L’Italia resta l’unico Paese in Europa (insieme a Grecia e Ungheria) che non ha alcuna misura generalizzata di ultima istanza che tuteli chi non ha nulla. La Francia a luglio prossimo avvierà il «revenue de solidarité active », il nuovo sussidio pubblico che sostituisce in parte e innova il vecchio reddito minimo di inserimento, avviato nell’ormai lontano 1988. Da vent’anni i francesi possono contare su un sussidio che per gli italiani resta un sogno. Ci aveva provato Prodi negli anni ‘90, ma ci si è fermati a una sperimentazione in alcuni Comuni. Poi, più nulla. Anzi, ultimamente l’ipotesi sembra diventata criminogena. Un invito a non lavorare. Detto da Silvio Berlusconi, che in questo non la pensa come Nicolas Sarkozy. Uno strumento strutturale e generalizzato si è sempre scontrato contro due obiezioni. Il peso eccessivo dell’economia in nero, e i costi troppo alti. Vero è che con l’evasione così alta, si rischia di aiutare anche chi froda il fisco.
Ma è altrettanto vero che l’evasione non può certo continuare a fare da alibi per rinviare il nuovo welfare. Quanto ai costi, secondo alcune stime garantire 400 euro a ciascun single senza figli costerebbe tra i 3 e i 6 miliardi (vedi A. Garnero su La voce.info). Qualche paragone? Eliminare l’Ici è costato oltre 3 miliardi. La finanza creativa ha lasciato un buco di un paio di miliardi. Insomma, almeno un pallido segnale l’Italia potrebbe darlo: è chiaro che c’è dell’altro. Qualche esperto parla di tirannia della classe media, potente serbatoio di voti della politica. Mettiamola così: i poveri non fanno vincere le elezioni. Così, per diverse ragioni, in Italia si è costruito un welfare ritagliato sulle categorie del lavoro. Con effetti distorsivi assolutamente paradossali. Come accade con gli assegni familiari: si ricevono solo se si è in attività. Se si perde il lavoro, si perdono anche gli assegni. La dote per i figli studiata dal governo prodi avrebbe superato questa distorsione: ma non se ne è vista più traccia.
Gli ultimi due governi hanno varato misure destinate alla parte più marginale della società. Il centrosinistra ha introdotto il bonus incapienti (2 miliardi di euro) e la quattordicesima mensilità per i pensionati al minimo (1,2 miliardi di euro), unica misura strutturale. Il centrodestra ha inventato la social card (circa 500 milioni) e il bonus famiglia (quasi due miliardi). L’effetto sul fenomeno, però risulta assai limitato, come segnala l’ultimo rapporto della commissione d’indagine sull’esclusione sociale. Analizzando le «numerose misure messe in campo» dal governo Prodi (oltre alle due segnalate, assegni familiari, aiuti per l’affitto, tutele ai disoccupati), gli esperti sono costretti ad ammettere che «l’assenza di una scala precisa di priorità, la scarsità di risorse disponibili, ampiamente inadeguate a ridurre davvero la povertà in Italia» hanno prodotto un impatto modesto. Anche se non mancano buoni risultati, come quello del bonus incapienti che riesce a raggiungere il 56% dei poveri e si rivela come la misura con il maggior impatto sugli indici di povertà.
Le misure nel loro complesso hanno avuto effetti positivi al sud, rispondendo ad uno degli elementi costitutivi della povertà italiana, più allarmante nelle regioni meridionali. Insomma, lo sforzo c’è stato:mail risultato complessivo è deludente.
Stessa cosa accade alle misure di Berlusconi (vedi Baldini e Pellegrino, su www.lavoce.info).
Sulla carta social card e bonus famiglia puntano ad aiutare gli strati più bassi, con un alta concentrazione per la card, quasi completamente concentrata sul 10% più povero della popolazione.
Anche le due misure del centrodestra sono più diffuse al sud. Ma saltano agli occhi vistose e gravi esclusioni. I single non pensionati, ad esempio, sono esclusi dal bonus, così come il reddito da lavoro autonomo. Ma il limite più pesante per le due misure è tutto l’armamentario burocratico inserito per ottenere i benefici. «L’erogazione non è automatica, ma subordinata alla domanda da parte dei beneficiari – scrivono De Vincenti e Paladini su www.nelmerito.it) – I difetti della manovra governativa segnalano a contrario ciò di cui vi sarebbe bisogno: un intervento di sostegno dei redditi personali e familiari consistente e con valore strutturale, cioè per un verso con effetti permanenti sul reddito disponibile e per altro verso con un miglioramento di equità e di razionalità del sistema italiano di imposta personale e sostegni alle famiglie». La macchinosità denunciata dagli esperti si sta rivelando fatale.
Oggi meno della metà della platea di beneficiari della card è stata coinvolta, e appena 2 milioni di famiglie hanno fatto richiesta del bonus, su un obiettivo di oltre 6 milioni. Chiaro che si va verso il fallimento.
L’ultimo record negativo dell’Italia riguarda proprio l’inefficacia delle sue azioni contro la povertà. Sta qui il ritardo più macroscopico. «Il tasso di povertà relativa – osserva ancora la commissione sull’esclusione sociale – prima dei trasferimenti è sostanzialmente in linea con la media comunitaria; mentre balza a livelli limite rispetto ai principali partner comunitari se misurato dopo i trasferimenti monetari specificamente finalizzati al contrasto alla povertà». Mentre gli altri Paesi riescono ad abbattere la loro povertà originaria con politiche ad hoc, l’Italia resta bloccata. Gli interventi migliorano la quota di appena 4 punti, rispetto a una media europea di 10 punti, con i «picchi» del welfare scandinavo (17 e 19 punti in Svezia e Norvegia) e le buone performance dei grandi (13 in Germania, 12 in Francia e Austria). La Commissione non esita a parlare di «fallimento» su cui «è opportuno riflettere a fondo». L’inefficacia delle misure fa il paio con l’immutabilità perenne del fenomeno. Da noi la quota dei poveri resta immutata ormai da un decennio. Circa 7 milioni e mezzo di persone sotto la soglia di sopravvivenza calcolata dall’Istat.
Intorno al 10% della popolazione. Nonostante il poderoso ingresso degli immigrati, nonostante la precarizzazione del mondo del lavoro, nonostante le mutazioni globali degli ultimi anni, quella quota non cambia di molto. Appare impermeabile a tutto. «Questa stabilità aggregata – osserva Andrea Brandolini, economista dell’Ufficio Studi di Banca d’Italia – nasconde tuttavia importanti cambiamenti nell’allocazione delle risorse. Dalla metà degli anni ‘90 e in particolare tra il 2000 e il 2004 essa è mutata a vantaggio delle famiglie degli autonomi e dei dirigenti, e a scapito di quelle di operai e degli impiegati. Inoltre è cresciuta la mobilità temporale dei redditi, e sono aumentati l’insicurezza delle famiglie e il loro senso di vulnerabilità». In altri termini, appare sempre più chiaro che quella soglia indicata dall’Istat diventa sempre meno rigida. il rischio di oltrepassarla si fa più acuto. Tant’è che operatori del settore, come la Caritas, per fotografare il fenomeno indigenza raddoppiano il dato dei 7 milioni contando anche le famiglie i cui redditi sono poco sopra il limite.

L’Unità, 12 marzo 2009