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“Il valore legale della laurea”, di Stefano Civitarese Matteucci e Gianluca Gardini

Circola l’idea che dal valore legale delle lauree dipenderebbero quasi tutti i mali dell’Università e che sarebbe sufficiente la sua abolizione per far guarire il malato. Ma il valore legale, come scriveva qualche anno fa Sabino Cassese, è una nebulosa, che non merita filippiche ma analisi distaccate. L’idea abolizionista è tuttavia tornata alla ribalta delle cronache e la stessa Camera dei deputati, in sede di conversione del decreto Gelmini sull’università, ha approvato due “ordini del giorno” che impegnano il Governo a valutare l’opportunità di abolire, o “gradualmente superare” il valore legale della laurea.

Gli stessi promotori di questi ordini del giorno sarebbero, forse, sorpresi di scoprire che non vi è alcuna disposizione di legge secondo cui i titoli di laurea hanno un valore legale generale di qualche tipo. L’obiettivo polemico degli “abolizionisti” è l’appiattimento tra le università: è inammissibile che la laurea presa nell’ateneo di provincia appena istituito abbia lo stesso “valore” di quella presa alla Bocconi o alla Sapienza, si dice. Ma è proprio così? Nel settore privato certamente no. La questione si pone per le professioni che prevedono iscrizioni in albi e per il pubblico impiego. Per le prime la laurea è un semplice pre-requisito di ingresso cui si aggiungono, in genere, un periodo di tirocinio ed un esame di abilitazione. Dopo di che ciascun professionista deve vedersela con il mercato e tra i molti fattori che pesano sul suo successo potrà esservi anche la buona o cattiva “fama” della facoltà dove ha studiato. È presumibile che una law firm preferisca un giovane avvocato laureato in una facoltà prestigiosa rispetto a quello proveniente da una facoltà scadente o sconosciuta.

In apparenza è per gli impieghi nel settore pubblico che il valore legale gioca un ruolo maggiore. Ma anche qui si tratta soltanto di un pre-requisito per accedere, mediante un concorso, alle “carriere direttive”, in passato precluse dalla legge ai non laureati. Oggi, tuttavia, la materia è rimessa alla contrattazione collettiva che a volte consente l’accesso alla dirigenza anche ai non laureati. Volendo si potrebbe svincolare tout court l’accesso nei ruoli della p.a. dal possesso di un titolo di studio. Questa è la regola che vige da sempre proprio nei concorsi per professore universitario di I fascia, ma essa presuppone una notevole fiducia nell’efficienza dei concorsi pubblici.

D’altra parte il valore legale accompagna molti altri titoli in circolazione nell’ordinamento nazionale: diploma di scuola media inferiore e superiore; esame di stato per l’accesso alle professioni, etc. Né potrebbe essere diversamente, a meno di non voler sottoporre i candidati a nuove verifiche circa la loro preparazione di base ogni volta in cui accedono ad un nuovo posto di lavoro. In generale una comunità non può fare a meno del “valore” di credibilità pubblica sul livello di istruzione e di competenza “presunta” di una persona che deriva dal fatto di aver frequentato un istituto di istruzione accreditato dallo Stato. Questo meccanismo esiste anche nei sistemi di educazione superiore in genere considerati più avanzati (quelli anglosassoni), ove i corsi di studio rilasciano “titoli” con valore legale se autorizzati a farlo da autorità pubbliche o da soggetti appositamente investiti dallo Stato di tale potere (degree awarding power). E tanto i datori di lavoro privati quanto quelli pubblici utilizzano in primo luogo questi titoli per selezionare i dipendenti. Se vi sono rilevanti differenze di risultati tra il sistema universitario italiano e quelli di area anglo-americana, queste vanno ascritte, semmai, alla qualità dei criteri, delle procedure e delle decisioni sul riconoscimento delle strutture accademiche che rilasciano titoli e non a divergenze fondamentali nel valore legale del titolo. È un problema di serietà delle procedure di accreditamento, in definitiva.

Chi si scaglia contro il valore legale pensa, in realtà, all’introduzione di norme che attribuiscano alla laurea ottenuta in una determinata facoltà, munita di un ranking più elevato, un titolo preferenziale o un “punteggio” maggiore nei concorsi pubblici. A parte che questo è l’esatto opposto dell’abolirne il valore legale, poiché si vincola il giudizio sulla preparazione di un candidato ad un elemento precostituito e astratto, in linea di principio nulla impedirebbe oggi ai commissari di un concorso di decidere che, a parità di altri meriti, il curriculum di un candidato risulti migliore di quello di un altro sulla base della reputazione della facoltà che egli ha frequentato. Ma come può il giudizio sulla reputazione di una facoltà universitaria fondarsi su basi minimamente oggettive? L’unica strada è quella di avviare e consolidare un sistema di valutazione del sistema universitario secondo criteri e parametri attendibili e continuamente aggiornati. Questo, nonostante i continui annunci di tutti gli ultimi ministri per l’università, è tuttavia ancora di là da venire. E quindi il discorso va perlomeno rinviato a miglior momento.

Peraltro, ferma restando la necessità di seri ed efficienti meccanismi di valutazione, che mostrino all’opinione pubblica le qualità e i difetti di ogni università sulla base di dati verificati e verificabili, rimane ancora tutto da dimostrare che sia desiderabile impiegare tali “classifiche” al fine di condizionare con regole precostituite i meccanismi di assunzione del singolo dipendente pubblico. Se lo scopo – condivisibile – è quello di far sì che i futuri dipendenti pubblici siano scelti in base al merito, distinguendo il valore legale da quello sostanziale, allora forse si sbaglia bersaglio. Più che innalzare vessilli contro il valore legale dei titoli, bisognerebbe riflettere seriamente sul funzionamento del concorso pubblico, che attualmente a tutto serve tranne che a valutare se un certo candidato è effettivamente quello di cui l’amministrazione ha bisogno.

La polemica sul “valore legale”, in definitiva, rischia di costituire un mero diversivo per non affrontare i reali problemi dell’università, che risiedono soprattutto nell’assenza di responsabilità dei docenti e di competitività tra gli Atenei.

da nelmerito.com