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“Quanti rischi nella rinuncia al tempo pieno”, di Silvia Berzoni e Paola Profeta

Tra fine marzo e aprile si decide il numero di insegnanti assegnati a ciascuna scuola. Si capirà dunque qual è il futuro del tempo pieno, al di là del gran numero di famiglie che continua a sceglierlo. La riduzione di questo modello di organizzazione scolastica ha conseguenze importanti. Non solo il probabile peggioramento della qualità dell’insegnamento e una minore capacità di recupero degli svantaggi sociali. Ma anche un ostacolo all’occupazione femminile e un passo indietro nel percorso verso il superamento della divisione dei ruoli all’interno della famiglia.

In questo periodo è d’obbligo tornare a riflettere sul futuro della scuola materna e della scuola primaria e sulle conseguenze della riforma contenuta nel decreto legge Gelmini. (1)Tra fine marzo e aprile infatti si decide il numero di insegnanti assegnati a ciascuna scuola. Da questo numero dipende il futuro del tempo pieno.

ALL’INSEGNA DELL’INCERTEZZA

Sul tempo pieno dominano la confusione e l’incertezza, in particolare per i genitori dei bambini che nell’anno scolastico 2009-2010 inizieranno la scuola primaria. Il decreto prevede la sostituzione dei tradizionali tempi scuola, finora articolati in orari di 27, 30 e 40 ore, con l’opzione delle 24 ore settimanali, da svolgersi nella sola mattinata e con la figura dell’insegnante unico. In assenza dei decreti attuativi che chiariscano il futuro del tempo pieno, i numeri che escono in questi giorni dalle segreterie delle scuole sembrano andare nella direzione opposta rispetto a quella intrapresa dal ministro. Secondo lo stesso ministero dell’Istruzione, solo il 3 per cento dei genitori, infatti, ha scelto le 24 ore come modello di scuola primaria per i propri figli, contro il 7 per cento che ha optato per le 27 ore, e il 56 per cento e il 34 per cento a favore, invece, delle 30 e 40 ore, rispettivamente. La possibilità di soddisfare l’elevato numero di adesioni agli ultimi due modelli, tuttavia, rimane vincolata alla disponibilità di organico delle scuole, che sarà decisa nelle prossime settimane. Se consideriamo anche la necessità di attuare i tagli previsti dal decreto legge 112/2008, che prevede 87.400 insegnanti in meno in tre anni, il futuro del tempo pieno è seriamente a rischio. Meno opzioni tra cui scegliere e meno tempo pieno sembrano essere gli esiti più temuti, ma purtroppo anche più scontati, nonostante le rassicurazioni in proposito del governo.

TRE RISCHI

Sono almeno tre i seri rischi che si prospettano. In primo luogo, il tempo pieno organizzato sulle 40 ore con due insegnanti corresponsabili rispondeva a un’esigenza di migliore qualità dell’insegnamento, di arricchimento dell’offerta formativa e di recupero degli svantaggi, funzione essenziale della scuola primaria. La ribadita garanzia del tempo pieno non rassicura invece sulle attività che verranno svolte e le modalità attraverso cui troveranno attuazione, e quindi sulla capacità di questo istituto di ridurre il divario esistente tra famiglie con redditi diversi.
In secondo luogo, la riduzione dell’opzione del tempo pieno può rappresentare un ostacolo all’occupazione femminile. Se consideriamo che molte donne lasciano il lavoro in seguito alla nascita dei figli, e se aggiungiamo che i servizi alla prima infanzia sono particolarmente carenti nel nostro paese, il tempo pieno alla scuola materna e primaria è uno dei pochi istituti a favore della conciliazione tra cura dei figli e lavoro. Peraltro, è diffuso per lo più al Nord, mentre ce ne sarebbe gran bisogno anche al Sud, dove l’occupazione femminile è molto più limitata. Inoltre, il lavoro femminile soffre di un problema di selezione accentuato: le donne con bassi livelli di istruzione sono quelle che partecipano meno al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione femminile per le donne tra i 15 e 64 anni con titolo di studio di scuola primaria o secondaria è circa il 30 per cento, mentre è quasi il 60 per cento per le diplomate e il 70 per cento per le laureate. Per le lavoratrici con bassi livelli di istruzione e bassi salari diventerà particolarmente difficile un’organizzazione alternativa al tempo pieno, con il rischio di aggravare il fenomeno della selezione. Senza dimenticare che il fenomeno spiega anche gli elevati differenziali salariali per genere del nostro paese.

FAMIGLIE “ASIMMETRICHE”

La riduzione del tempo pieno scolastico rappresenta una minaccia per l’attuale tendenza a una maggiore simmetria tra i genitori e un passo indietro nel percorso verso il superamento della divisione dei ruoli all’interno della famiglia, già lenta a decollare nel nostro paese.
Le stime di Burda, Hamermesh e Weil ci dicono che, in Italia, nonostante la bassa occupazione femminile sul mercato, se consideriamo sia il lavoro domestico sia il lavoro per il mercato, le donne lavorano complessivamente di più degli uomini, perché dedicano molto più tempo al lavoro domestico. (2) L’accentuato differenziale di genere nell’allocazione del tempo tra lavoro domestico e lavoro sul mercato è un segnale che la divisione del lavoro all’interno della famiglia, la cosiddetta specializzazione, è ancora molto radicata e che stentiamo ad avviarci verso un equilibrio ungendered, cioè senza differenziali di genere di partecipazione e di salari e con divisione egualitaria del lavoro domestico nella coppia. Una recente letteratura economica ha dimostrato che equilibri ungendered possono essere superiori dal punto di vista del welfare agli equilibri con specializzazione. (3)
La divisione paritaria del lavoro domestico è certamente più compatibile con un modello scolastico che vede i bambini impegnati a scuola per tempi più lunghi. L’alternativa invece incentiva alla specializzazione. Puntare sulla carriera di uno solo dei due genitori, tipicamente il padre, può comportare maggiori rischi, occupazionali, familiari, spesso addirittura di povertà. Senza considerare che le donne che rinunciano alla propria carriera per la cura dei bambini hanno rischi di povertà in età anziana molto più elevati, dovendo gestire la loro maggiore longevità con pensioni sempre meno generose.

 (1) È il decreto legge n. 137 dell’1/9/2008.
(2) Burda, Hamermesh e Weil “Total work, gender and social norms”, 2007, NBER w.p. 13000.
(3) De la Rica, Dolado, Garcia-Peñalosa 2008 “On Gender Wage and Participation Gaps: Theory, Policies and Some Empirical Evidence”.

La voce.info 27.03.09