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“Maternità, 18 settimane a casa. L’Europa allunga i tempi, a stipendio pieno. I benefici estesi alle libere professioniste”, di Luigi Offeddu

Mamme o future mamme di tutta Europa, consolatevi: il Parlamento Europeo vuole cambiare le leggi in materia di maternità, garantendo congedi più lunghi, meglio retribuiti, ed estesi a più categorie. Il sì politico è giunto ieri quasi all’unanimità (28 sì, 3 no, un astenuto) dalla Commissione lavoro e affari sociali. Ecco le novità centrali del documento che ha l’obiettivo di migliorare la «vecchia » direttiva Ue finora in vigore: il periodo minimo di maternità passerà da 14 a 18 settimane ininterrotte, «ripartite prima e/o dopo il parto» (già ora è così in 12 Stati Ue su 27, e l’Italia è ai primi posti: 21 settimane), retribuite con l’equivalente al 100% del salario mensile medio (oggi in Italia ci si ferma all’80%); e comunque, mai al di sotto della retribuzione prevista in caso di malattia. Di queste 18 settimane, 6 «su richiesta» (prolungabili a 8, secondo la volontà dei singoli governi) potranno e dovranno essere godute dopo il parto: e questo, com’è spiegato esplicitamente nella motivazione dell’emendamento, «per proteggere le lavoratrici da eventuali pressioni dei datori di lavoro perché non fruiscano prima del parto» del loro periodo di riposo.

Le altre settimane di congedo verranno invece lasciate alla libera scelta della donna (che avrà però l’obbligo di indicare almeno due mesi prima la data di inizio prevista, così da permettere «la sicurezza di pianificazione delle imprese»). Confermato il divieto di licenziamento delle neo-mamme, in ogni nazione, fino a 4 mesi dopo il parto. E ancora: le garanzie verranno estese anche alle donne che lavorano in proprio, per esempio alle imprenditrici; e verrà riconosciuta come malattia invalidante la depressione post-partum. Con questi «sì», la nuova normativa—che 6 mesi fa aveva iniziato il suo viaggio dalle sale della Commissione Europea — ha superato uno degli ostacoli più importanti. I passi successivi sono già segnati: il 18 aprile, parere della Commissione Donne, ai primi di maggio, voto dell’Europarlamento in seduta plenaria. Naturalmente, è solo una coincidenza: ma il passo compiuto ieri dagli eurodeputati, proprio alla vigilia del vertice del G20, sembra marcare un’altra differenza sociale fra Europa e America. Diversamente dagli Usa, che in fatto di madri e padri con figli non concedono granché, i Paesi Ue hanno infatti percorso un bel po’ di strada: la maternità pagata è ovunque un fatto scontato; e concetti che un tempo facevano sgranare gli occhi a molti, come il «congedo parentale» (periodo più o meno lungo di permesso pagato, accordato alla madre o al padre lavoratore perché contribuisca alla cura del figlio, in genere fino a un’età di 3 anni), cominciano a diventare anch’essi realtà quotidiana. È molto, se si ricorda la situazione di 50 anni fa.

Ma non è abbastanza, dice Bruxelles: in Europa il 65,5% delle donne con figli piccoli ha un lavoro regolare, mentre questa percentuale sale al 91,7% nel caso degli uomini. Vuol dire che la bilancia è assai squilibrata: secondo Vladimir Spidla, commissario europeo all’Occupazione e alle pari opportunità, «conciliare lavoro, famiglia e vita privata è una difficile sfida per milioni di europei, uomini e donne, ma avere dei figli costa troppo spesso alle donne un prezzo pesante in termini di reddito e di prospettive di carriera». Se si è deciso di metter mano alla vecchia direttiva sulla maternità, è dunque nella speranza di «migliorare l’equilibrio fra vita lavorativa e vita privata- familiare per tutti, e accrescere la partecipazione al mercato del lavoro soprattutto per le donne». C’è altro, che bolle nel pentolone Ue. Per esempio, la richiesta—presentata dall’eurodeputata Patrizia Toia, del gruppo liberaldemocratico Adle—di uniformare non solo le norme sulla maternità ma anche quelle in materia di congedi parentali, così da consentire «una maggiore condivisione e corresponsabilità tra i coniugi» e evitare che le donne «vengano discriminate o penalizzate sul posto di lavoro»: oggi, infatti, il congedo parentale pagato, anche per il padre, è previsto per legge solo in 15 Stati membri (fra cui l’Italia: 13 settimane), ma solo il 24% delle madri lavoratrici usufruisce di congedi parentali nei primi 3 anni di vita del figlio, e questa percentuale cala al 3% nel caso degli uomini. «Insomma — dice Patrizia Toia—pur condizionata dai fatti della vita, dovrebbe essere la libertà di scelta della donna, a contare di più. Non è un destino coatto, il restare a casa… E ci sono poi altri drammi, di cui si parla molto poco.

Per esempio, la depressione post-partum: la scopriamo solo quando emerge dalla cronaca nera, anche se ne soffre il 10-15% delle madri. È come se si avesse quasi paura, nominando la depressione post-partum, di parlar male della maternità. Ma la depressione ha un suo costo, anche quando non sfocia nella cronaca nera: perciò ho proposto che gli Stati membri la riconoscano come malattia invalidante». In sostanza, gli eventuali periodi di malattia derivanti da una depressione manifestatasi entro 4 settimane prima o dopo il parto, non potranno ridurre la durata del congedo di maternità. E anche questa proposta, superato ieri il vaglio della Commissione, si avvia a diventare legge. Se la Ue riuscirà ad aggiornare tutte queste norme, farà anche un buon passo avanti verso altri obiettivi che essa stessa si è posta, i cosiddetti «obiettivi di Barcellona»: assicurare cura e assistenza ad almeno il 33% dei bambini sotto i 3 anni (oggi è un bersaglio centrato solo da 5 Stati su 27) e ad almeno il 90% dei bambini fra i 3 anni e l’età dell’obbligo scolastico (8 gli Stati «virtuosi», fra cui l’Italia). Nelle statistiche della Ue, c’è un dato che fa pensare: quelle nazioni dove la donna lavora di più, e dove meglio funzionano gli asili-nido e altre forme di assistenza compresi i congedi parentali per i papà, sono le stesse che tendono ad avere tassi di natalità più alti; mentre gli indici più bassi (1,2 figli per ogni donna) si hanno in Italia e Spagna

Corriere della Sera, 1 aprile 2009