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“L’assistenza sociale ‘fai da te’”, di Gad Lerner

La perdita del lavoro, le crisi di liquidità, l’inaspettato abbassamento del tenore di vita che colpisce molti cittadini, stanno provocando nella società italiana un’inaspettata reazione vitale di “assistenza sociale fai da te”. La gente in difficoltà cerca aiuto e non ne trova nelle misure di sostegno erogate dallo Stato: basti pensare alla sostanziale irrilevanza della “Social card” inventata dal governo per la spesa dei meno abbienti. Talmente numerosi sono i bisognosi privi dei requisiti necessari per godere della cassa integrazione, del sussidio di disoccupazione o di altre forme di protezione pubblica, da rendere inevitabile la ricerca di alternative private. Si torna all’antico, cioè alla carità privata in cui è il donatore a stabilire chi merita la nostra compassione e chi no?
Il fenomeno è ambivalente perché scaturisce da una carenza delle pubbliche istituzioni. Per chi crede nei principi universalistici del Welfare europeo è amaro constatare quanto stia diventando arduo applicarli. Comincia a prevalere l’idea che non ce ne sarà abbastanza per tutti i sinistrati, così come la nostra pietà è tutt’altro che smisurata: rimuoviamo frettolosamente le centinaia di africani morti in mare lunedì scorso cercando rifugio sulla nostra penisola. Ci indignano i ragazzini afghani stipati nelle fogne di Roma o i cinesi che pagavano un alloggio sottoterra a Milano, ma finanzieremmo malvolentieri soluzioni abitative decenti per i baraccati dei campi abusivi. C’è povero e povero? Di certo sentiamo prossimi i nostri operai e i nostri pensionati, ancor di più ci identifichiamo nel ceto medio aggredito dalla crisi e trascinato a rinunce dolorose; molto meno siamo disponibili verso gli stranieri e gli emarginati.
Ecco allora che l’”assistenza sociale fai da te” –nobile spinta alla solidarietà collettiva- si trova a dover compiere delle scelte di priorità che lo Stato lascia irrisolte. Cominciano a derivarne spiacevoli conflitti, come a Novara dove il sindaco leghista attacca la Caritas perché ha stabilito di aiutare con soldi pubblici anche degli stranieri privi di documenti in regola.
Assai vario è il panorama della nuova solidarietà privata, figlia di una profonda sfiducia nelle capacità ideali e nelle possibilità materiali della politica di fronteggiare la bufera sociale: raccolte di fondi patrocinate dalle parrocchie e dai Comuni che elargiscono prestiti o donazioni; microcredito sul modello del “banchiere dei poveri” Yunus; Casse di Risparmio e Fondazioni che anticipano somme o sospendono la riscossione dei mutui; ambulatori medici a tariffe agevolate. A muoversi per primo è stato l’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha promosso nella sua diocesi un “Fondo Famiglia-Lavoro”. La stessa Cei ha deciso di raccogliere tra i fedeli 30 milioni di euro confidando che l’Associazione Bancaria Italiana li consideri sufficienti a garantire un piano di finanziamento da 300 milioni per coppie regolarmente sposate con almeno tre figli. E’ interessante notare che tale somma –se davvero verrà elargita- supera di parecchio gli stanziamenti governativi per la “Social card”. Ma nella migliore delle ipotesi basterà ad aiutare 30 mila famiglie.
Con colpevole ritardo rispetto agli Stati Uniti, cominciano a muoversi le prime istituzioni di “Venture capital sociale”, ad opera di finanzieri e imprenditori che vi destinano una quota degli utili d’impresa ma si prefiggono di preservare l’equilibrio di bilancio anche nel no-profit. Un lodevole attivismo che non può certo svuotare il mare del bisogno: tali interventi hanno semmai un carattere di denuncia e provocazione, evidenziano l’inadempienza pubblica, non potranno mai sostituirsi alle prestazioni universalistiche di un Welfare di Stato che necessita di essere profondamente riformato: oggi tutela solo categorie ristrette, abbandona a se stesse fasce crescenti di popolazione.
Il pericolo dell’”assistenza fai da te” è che prevalga l’idea: i soldi sono miei, aiuto chi mi pare. Se nella crisi la Chiesa, finanziata con l’8 per mille, riscopre quanto sia preziosa la sua ramificazione incentrata nei luoghi di culto, non è certo un caso che essa colga l’occasione per rilanciare la funzione sociale del parroco: i Fondi di solidarietà diocesani prevedono che sia sempre lui in ultima istanza a consegnare la fatidica busta ai bisognosi. C’è qualcosa di molto antico in questo ruolo attribuito nuovamente al parroco, in supplenza di interventi pubblici. Rispetto alle opere caritatevoli del passato che si rivolgevano esclusivamente ai battezzati, facenti parte della comunità, magari autorizzati all’elemosina col distintivo medievale dei “veri poveri”, va registrata una novità importante: oggi la Chiesa non seleziona più i bisognosi rispetto all’appartenenza etnica, religiosa o nazionale. In ciò differenziandosi da troppi esponenti politici.
Mi chiedo però se il venir meno del principio universalistico della protezione sociale non rischi di provocare una marcia indietro della storia. Non è certo indifferente per le sorti della società italiana e del nostro senso di comunità il modo in cui si affronta la tutela dei più deboli nella crisi. C’è addirittura il rischio che la nuova carità privata svuoti le esperienze più avanzate di integrazione e accoglienza messe in campo in questi anni dal volontariato. La formula paternalistica di Berlusconi –“non lasceremo nessuno indietro”- purtroppo è solo una pia intenzione già smentita nel vissuto della gente. Se sapremo o non sapremo uscire insieme dalla “nuttata”, resta un’incognita. Dipende dallo Stato, ma dipende anche da come si comporteranno i generosi protagonisti dell’”assistenza fai da te”.

La Repubblica, 6 aprile 2009

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