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“Finisce il Tempo Pieno, restano le 40 ore?”, di Gianni Gandola e Federico Niccoli

Pippo Frisone, nel suo articolo “Il falso ideologico sul tempo pieno”, largamente condivisibile e quanto mai attuale, dice però un’inesattezza quando scrive che con la Moratti ministro del Miur “con i due docenti sulle 40 ore si mantenevano tutte le ore di compresenza”, nella scuola primaria.

In realtà la Moratti garantiva il modello orario a 40 ore ma non il tempo pieno con il doppio organico. Tant’è che nella legislatura successiva il ministro Fioroni, con la legge 176/2007, dovette ripristinare la situazione precedente (la legge n.148/1990, poi Testo unico 297/1994, art.130), con le relative implicazioni sul piano degli organici docenti (due insegnanti per classe).

Negli anni della Moratti, almeno in molte scuole milanesi a tempo pieno, non vi fu il raddoppio automatico dell’organico ma venne assegnato qualche posto docente in meno, in numero tale però da consentire le 40 ore di tempo scuola. In concreto: ad una scuola con 20 classi a TP non vennero assegnati 40 docenti, ma 39 o 38. Il completamento orario delle 40 ore, comunque garantite ai genitori, avveniva appunto utilizzando parte delle ore di compresenza dei docenti della stessa fascia di classi o di altre (più le ore di contemporaneità dello specialista di inglese o di religione che “liberano” ore dell’insegnante di classe).

I docenti delle scuole milanesi ricordano ancora bene gli estenuanti dibattiti in Collegio sul tema “dove togliere le compresenze”, se all’interclasse delle prime piuttosto che delle quinte o di classi intermedie.

Ora, da tempo su questo giornale prospettiamo un’eventualità tutt’altro che remota: che si ripeta quel copione. Ricordate quando la Moratti, ineffabile, in televisione ripeteva come un ritornello “le 40 ore del tempo pieno sono garantite, non cambia nulla”, giocando sull’equivoco? Ebbene le 40 ore di scuola venivano sì assicurate, ma non il tempo pieno. Il Tempo Pieno come modello pedagogico, per come l’abbiamo conosciuto (e fondato, e costruito) dagli anni ’70 in poi è un’altra cosa.

Cosa cambia, in concreto?
Cerchiamo di farci capire, anche dai non “addetti ai lavori” (è la funzione di questo giornale che, nell’informazione, non si rivolge solo agli specialisti del settore).

Il Tempo Pieno storico (dalla legge istitutiva n.820 del 1971 in poi) prevede l’assegnazione di due docenti per classe. Poiché il tempo scuola previsto è di 40 ore e l’orario di lezione dei due docenti è pari a 44 ore (22×2) si verifica un’eccedenza di 4 ore settimanali nelle quali i due docenti vengono a trovarsi in “compresenza”, presenti cioè contemporaneamente nella stessa fascia oraria. Queste 4 ore, ripartite solitamente su due giornate, sono esattamente quelle che consentono di effettuare tutta una serie di attività che sono “qualificanti” per l’organizzazione didattica del Tempo Pieno stesso. Le “compresenze” consentono infatti (ed esse sole) di poter suddividere la classe in gruppi di alunni e quindi di poter svolgere attività che altrimenti non sarebbero possibili (gruppi di recupero per livelli di apprendimento, interventi individualizzati, attività di laboratorio, classi aperte con alunni delle classi parallele, integrazione e recupero linguistico alunni stranieri, ecc.).

Pensiamo tanto per fare un esempio all’utilizzo dei laboratori di informatica, diffusi nelle scuole milanesi (un conto è andarci con la classe intera, un altro andarci con un gruppo ridotto di 10-12 bambini, metà classe…). Per non dire delle uscite didattiche sul territorio (mostre, musei, ricerca d’ambiente), possibili se sono presenti ambedue gli insegnanti.

Questo è il “surplus”, sul piano della innovazione e della “qualità” didattica, di cui dispone il modello del Tempo Pieno (una volta, quando l’orario dei docenti di scuola elementare era di 24 ore settimanali di lezione le compresenze venivano attuate 4 giorni su 5!).

Certo, sappiamo bene che in alcune realtà le compresenze non vengono utilizzate in questo modo ma al ribasso (o per la sostituzione di colleghi assenti o con i due docenti presenti contemporaneamente in classe). Ma questo altro non è che una modalità non corretta, “perversa”, di effettuazione delle compresenze, che non inficia affatto le potenzialità implicite nel modello (e l’esperienza e le buone pratiche di tante scuole a tempo pieno!).

E adesso? Cosa può succedere?
Ora, cosa succede, nei piani del ministro (come già all’epoca della Moratti)? Le compresenze vengono considerate di fatto come qualcosa di superfluo e quindi di intollerabile (uno spreco di risorse): non si capisce infatti che ci stanno a fare due insegnanti presenti contemporaneamente nella stessa fascia oraria quando per “tenere la classe” ne basta uno. Quindi si pensa di utilizzare in altro modo queste ore. Parte delle ore di compresenza dei docenti sono già state utilizzate, ripetiamo, ai fini della costituzione dell’organico di istituto.

Ora noi temiamo, a ragion veduta considerate le ultime avvisaglie, il ripetersi dello stesso film. Si dice: il tempo pieno verrà confermato, addirittura vi sarà un’espansione. Sì, ma di quale tempo pieno si parla? Di un tempo scuola di 40 ore o del Tempo Pieno classico? Noi pensiamo che si tratti esclusivamente delle 40 ore di tempo scuola per gli alunni.

In altre parole temiamo che verrà assegnato alle scuole il numero dei docenti di classe necessario per garantire le 40 ore di scuola, al netto delle ore di inglese, religione e delle ore di compresenza che vengono appunto utilizzate per coprire l’intero monte orario.

Se così fosse (e ci auguriamo di essere smentiti) questo segnerebbe la fine del modello pedagogico del Tempo Pieno. Senza le compresenze – che a nostro avviso sono un elemento costitutivo, qualificante di questo modello organizzativo – non c’è più il Tempo Pieno. Resta un tempo scuola di 40 ore che, appunto, è un’altra cosa.

I due insegnanti di classe – in tal caso – non si incroceranno mai. Non sarà più possibile suddividere la classe in gruppi di alunni. In quella determinata classe entreranno insegnanti di altre classi, per alcune ore, ai fini della copertura dell’intero orario. Assisteremo allora alla snaturamento del Tempo Pieno e della sua ispirazione originaria, che è innanzi tutto pedagogico-didattica. Una riduzione di risorse che si traduce immediatamente in una diminuzione dell’offerta formativa, della “qualità” della didattica, della possibilità materiale di svolgere attività didattiche significative per “gruppi classe”.

Tempo pieno… di futuro o di passato?
L’eliminazione del tempo-pieno quale modello pedagogico innovativo è nelle corde di tutto l’apparato ministeriale dal ministro ai funzionari centrali, regionali e provinciali. Per esempio, in un pomposo convegno a Varese del 4 aprile scorso dal titolo “Un tempo pieno…di futuro” al quale siamo stati invitati come relatori, promosso, tra gli altri, dall’USP di Varese e dal Comune di Varese, il Provveditore (melius: il dirigente dell’Usp), che si intende di queste tematiche, ha, senza troppi giri di parole, ritenuto un po’ debole la circolare ministeriale sulla permanenza “all’interno degli organici di istituto” delle risorse derivanti dall’abolizione delle compresenze. Più esplicitamente: a Varese si è verificato un forte incremento di richieste di TP, ma la provincia non dispone di risorse di compresenze tali da consentire l’ampliamento dell’offerta formativa. E, quindi: Milano, principalmente, e parzialmente Lodi debbono pagare un prezzo per consentire una sorta di federalismo solidale a favore delle province lombarde. In astratto il ragionamento non fa una grinza (a parte il fatto che non avremo un tempo pieno… di futuro, ma …di passato!). Se le compresenze sono un lusso, perché consentire gli sprechi a Milano e lasciare senza una risposta positiva le famiglie che a Varese, Como, etc. hanno richiesto le 40 ore? Le forze politiche locali sono state esplicitamente invitate a difendere la bandiera dei lombardi defraudati questa volta, finalmente, non da Roma ladrona, ma da Milano sprecona.

Noi abbiamo un’unica nostalgia: la difesa della qualità della scuola pubblica a tempo pieno. Non abbiamo nessuna esigenza corporativa da mettere in campo. Se, però, davvero le compresenze dovessero sparire, per quale motivo, ci chiediamo, la redistribuzione delle risorse dovrebbe avvenire a livello esclusivamente regionale? Perché i presunti sprechi milanesi dovrebbero finire ad incrementare le risorse di province ricche con Enti locali che supportano già concretamente ed efficacemente le scuole dei rispettivi territori? Perché i presunti sprechi non dovrebbero essere destinati alle regioni meridionali, che pagano il prezzo maggiore dei tagli ? In quelle province anche il solo ampliamento dell’offerta formativa statale (nella completa assenza di risorse degli enti locali) potrebbe contribuire a non consegnare immediatamente ed irreversibilmente le giovani generazioni alle mafie, ndranghete e varie mirabilie criminali.

Se poi dovesse continuare l’enfasi riposta dal Miur nel modello ideologico “insegnante unico/24 ore”, o la voglia di “ritorno al passato” alla Tremonti, è facilmente prevedibile la prospettiva che si può aprire. Una volta smantellato il TP come modello pedagogico e affermato un principio meramente quantitativo di “tempo massimo di permanenza a scuola”, il passaggio successivo può consistere nell’assegnazione di un docente titolare, responsabile di classe, e di un altro (o altri) per coprire le 40 ore di scuola, come ai tempi del vecchio doposcuola. Dalle 40 ore, così concepite, alla scuola del mattino (obbligatoria per tutti) più quella (facoltativa) del pomeriggio il passo è breve.

Non vorremmo fare le Cassandre di turno ma questo è lo scenario che si prospetta.

ScuolaOggi, 8 aprile 2009