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“La riforma tradita. Manicomi privati”, di Cristiana Pulcinelli

Più della metà dei posti letto per i malati psichiatrici è fuori dalle strutture pubbliche. Per le altre specialità mediche si è al di sotto del 20 per cento. In 200 strutture (su un totale di 285) è praticata la contenzione. Ma c’è anche chi mette in atto i principi della legge-Basaglia

Com’è lo stato delle strutture di psichiatria per pazienti acuti in Italia? L’Istituto Superiore di Sanità e il Dipartimento di salute mentale di Trieste qualche anno fa hanno coordinato uno studio a cui hanno aderito tutte le regioni (con la sola esclusione della Sicilia) con lo scopo di disegnare un quadro della situazione.
La prima cosa che salta agli occhi è il peso del privato: il 54,2 per cento dei posti letto in psichiatria si trova nelle strutture private. Una percentuale molto alta che rappresenta un’anomalia nella sanità italiana visto che, per quanto riguarda le altre specialità mediche, la percentuale di posti letto privati è solo del 19,5 per cento. E c’è un altro dato su cui riflettere: nelle strutture private, inoltre, il ricovero dura tre volte di più rispetto alle strutture pubbliche.
I Servizi psichiatrici diagnosi e cura pubblici sono situati spesso in strutture inadeguate: oltre il 3 per cento si trova in seminterrati, uno su tre non ha uno spazio all’aperto per i ricoverati e circa la metà non ha una sala comune. Alcuni non hanno neppure una sala per le attività cliniche o gli incontri con i familiari.
Nell’80 per cento dei casi, i Servizi diagnosi e cura visitati avevano la porta d’ingresso chiusa: è il dato più alto in Europa. Nelle strutture pubbliche vengono ricoverati soprattutto uomini abbastanza giovani, mentre in quelle private i ricoverati sono per lo più donne anziane.
Ma la cosa più grave è che in molti di questi luoghi i pazienti vengono ancora legati ai letti. In 200 Servizi di diagnosi e cura (su un totale di 285) si dichiara di attuare la contenzione meccanica e di usare un camerino di isolamento. Visto che i rimanenti 85 Servizi dichiarano di non ricorrere mai alla contenzione, se ne deduce che si tratta di maltrattamenti evitabili.
«Nei tre giorni fissati per la rilevazione sul campo, in 3 su 10 delle strutture visitate – si legge in uno dei resoconti – c’era almeno una persona legata. Fino a 4 contemporaneamente in alcuni. Gli uomini molto di più che le donne, gli immigrati più dei locali. In uno a essere legata era una ragazzina di 14 anni. Nei reparti di neuropsichiatria infantile, in civilissime città (a Monza come a Torino, per esempio), bambini tra i 9 e 14 anni vengono legati al letto e trattati con dosi “eroiche” di psicofarmaci. Malgrado la disponibilità ormai diffusissima di educatori, accompagnatori, volontari. Soltanto negli ultimi due anni almeno 5 persone sono morte legate ai letti a causa dell’immobilità dovuta alla contenzione e delle dosi massicce di psicofarmaci. In ricche, civili e insospettabili città, al sud come al nord».
Ci sono i casi-limite come quello dell’istituto Giovanni XXIII di Serra d’Aiello in Calabria gestito da religiosi dove, nel 2007, Finanza e Carabinieri hanno trovato un inferno fatto di sporcizia, degrado e dolore per 300 ricoverati. Ma quante sono le situazioni simili ancora sommerse e che non riescono ad emergere?
Ma poiché l’Italia è il paese delle contraddizioni, accanto a queste tragedie, si trovano esempi positivi che sono diventati dei modelli a livello internazionale. Uno di questi è il Dipartimento di salute mentale di Trieste, centro collaboratore dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A Trieste nel 1971 Franco Basaglia assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico e qui è cominciato il processo di smantellamento del manicomio e della sua sostituzione con i servizi territoriali che oggi è diventato un obiettivo mondiale secondo l’Oms. La legge 180 è del 1978 ed è frutto anche di quello che avvenne a Trieste negli anni precedenti. Dal 1980 l’ospedale psichiatrico di Trieste è definitivamente chiuso, ma il lavoro cominciato da Basaglia continua nel Dipartimento di salute mentale della città.
Dimenticate i muri scrostati e le sedie di ferro. Qui ci sono pareti fiorite, tavoli semplici ma di design, poltrone bianche, una cucina in acciaio, una sala cinema con il soffitto in legno, camere con uno o due letti, ognuno dotato di un comodino e un armadietto, dove, chi vuole, può rimanere a dormire o può riposare anche durante il giorno. Tutto come in una vera casa. Una casa bella e semplice. Ma il Csm da solo non basta. I dipartimenti di salute mentale infatti hanno al loro interno un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (Spdc), che si trova nell’ospedale ed è il luogo dove vengono ricoverati i pazienti dal pronto soccorso psichiatrico e dove vanno i trattamenti sanitari obbligatori. A Trieste questo servizio ha solo 6 posti letto, «ma funziona la rete territoriale» commenta Dell’Acqua. Qui da 35 anni non si lega più nessuno, ma altrove non è così: «Da un’indagine dell’Istituto superiore di sanità – ci spiega Dell’Acqua – in 6 Spdc italiani su 10 si usa ancora la contenzione, almeno in modo sporadico».
Nella rete territoriale c’è poi la terza gamba del dipartimento: il Servizio abilitazione e residenze. Il suo compito è quello di coordinare le strutture residenziali (dove vivono le persone che non possono rimanere nella casa di famiglia) e le attività riabilitative. In città ci sono 6 strutture residenziali con 40 posti e un centro diurno con 6 laboratori. Nel centro diurno hanno la loro sede le cooperative sociali all’interno delle quali lavorano la persone con disagio mentale. Si occupano di sartoria, edilizia, pulizie, giardinaggio, ristorazione, piccola editoria. I laboratori fanno corsi di arti visive, musica, tessuti.
Il modello triestino ha avuto molti riconoscimenti. L’Oms ha indicato il dipartimento triestino come centro per la formazione dei «mental health center community based» in Europa. E tuttavia, sono in molti ad osteggiarlo. Recentemente il suo operato è stato oggetto di un attacco da parte del quotidiano Libero e di una interrogazione di Paolo Guzzanti al ministro Sacconi in cui si accusa gli psichiatri di Trieste di «atteggiamenti disumani» e si chiede con urgenza di modificare la legge 180 (Guzzanti, peraltro, è firmatario di una delle proposte di legge di riforma).
Peppe Dell’Acqua è preoccupato. Da che? «Da una psichiatria che vede solo malattia, che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco. Questa psichiatria è tornata nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati, nelle affollate e immobili strutture residenziali, nei Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori. Non a caso le ultime proposte di modifica della legge 180 si muovono in questa direzione. Propongono adeguate strutture di cura «ad alta protezione» e procedura più restrittive, più rapide e meno garantite di obbligatorietà alla cura». Ma questo non lo vogliono neppure i familiari. L’Unasam, che rappresenta oltre 150 associazioni di familiari, nella home page del suo sito ha scritto a chiare lettere cosa vogliono e cosa non vogliono. Nel primo elenco troviamo: un’assistenza adeguata sia in fase di cronicità sia in quelle di emergenza; la riabilitazione psicosociale continuativa, cioè abitativa, lavorativa e con servizi di supporto; la chiusura definitiva degli ultimi ospedali psichiatrici. Tra le cose che non vogliono: una situazione logora, in cui buone leggi rimangono inapplicate; i malati abbandonati con le loro famiglie; le strutture neomanicomiali nelle quali si entra per non uscire più; una università vecchia, ferma nel passato, che continua a sfornare giovani psichiatri su modelli ormai desueti e criticabili, trascurando la nuova psichiatria di comunità.

«Luogo aperto a tutti, il modello di Trieste », di Cristiana Pulcinelli
Oggi di Centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno per 7 giorni ce ne sono 4 a Trieste, 13 in tutto il Friuli Venezia Giulia, ma il progetto è quello di arrivare a 20. Funzionano? Un metodo per valutarlo è quello di contare i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso). «A Trieste –spiega Dell’Acqua- abbiamo 7 Tso ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 24 ogni 100mila abitanti». Avere un Csm aperto sempre vuol dire dover ricorrere di meno all’ospedalizzazione coatta. In Italia i Csm di quel tipo non sono più di una ventina. Perché? La prima spiegazione è che la legge 180 non dà indicazioni su come organizzare l’assistenza. L’unica cosa che viene regolamentata dalla 180 è il Tso, il ricovero contro la volontà del paziente. Per il resto, è demandato alle regioni. E ogni regione opera in modo diverso.
Da un padiglione dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste trasmette «Radio Fragola». È una radio comunitaria, ovvero una radio senza scopo di lucro, gestita da una cooperativa che al suo interno ha una quota di soci provenienti dal disagio psichico. Le sue trasmissioni coprono via etere l’area triestina, ma in streaming si possono sentire da tutt’Italia (www.radiofragola.com). La redazione è formata da professionisti, ma i programmi di intrattenimento musicale vengono gestiti da volontari la cui età va dai 14 ai 70 anni. Qui si fa anche formazione alle persone che provengono dal disagio psichico e vogliono fare per un periodo questa esperienza lavorativa.
Peppe, dobbiamo andare in America». «A che fare, Mauro?». «A levarci l’età». «Quanto costa?». «Un milione di dollari». «Ma io non ce li ho tutti ’sti soldi. Senti a me, Mauro, l’unico modo per levarti l’età è goderti la vita di più». «Non posso, Peppe». Quando Mauro dice «non posso», lascia trasparire un mondo di sofferenza che Peppe conosce e noi possiamo solo intuire.
Peppe è lo psichiatra, Mauro il matto. Ma quando si incontrano nel corridoio di uno dei padiglioni dell’ex ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste sono solo due vecchi amici. Si conoscono dai primi anni Settanta, quando entrambi avevano poco più di vent’anni. Peppe era appena laureato e arrivava da Salerno accolto da Basaglia che stava radunando attorno a sé giovani psichiatri. Mauro aveva avuto le sue prime crisi. Oggi, Peppe è il direttore del dipartimento di salute mentale della città e Mauro fa il custode in una delle strutture del dipartimento.
Con Peppe Dell’Acqua, ci incontriamo al Posto delle fragole, un piccolo ristorante all’interno dell’ex manicomio. Un luogo bellissimo in cima a una collina, circondato da un meraviglioso parco dove sorgono le palazzine che un tempo ospitavano i malati, divisi in categorie precise: i sudici, i violenti, gli incontinenti. Il ristorante è gestito da una cooperativa di tipo B, ovvero all’interno della quale ci deve essere il 30% di persone svantaggiate, e propone dei piatti deliziosi.
«L’anno scorso il manicomio di Trieste ha compiuto cento anni – racconta Dell’Acqua – È nato sul modello austriaco: una cittadella separata dal resto del mondo, luogo di cura e di reclusione». Prima ancora che fosse approvata la riforma psichiatrica e cominciasse lo smantellamento dei manicomi, qui a Trieste si cominciò a pensare a luoghi di cura diversi. Si ipotizzò che questi luoghi dovessero essere inseriti nella città, ma dovessero anche essere aperti sempre: giorno e notte, giorni feriali e domeniche. «Trent’anni fa ci inventammo questa macchina da corsa: un Centro di Salute Mentale aperto 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. E ancora oggi credo sia uno strumento potente», racconta Franco Rotelli, psichiatra e oggi direttore della Asl durante la presentazione di una mostra sui progetti architettonici per i Csm. «Quando a Barcola, uno dei quartieri bene della città, si propose di aprire la prima struttura di questo genere nel 1976 la popolazione era spaventata – continua Rotelli – poi organizzammo un’assemblea pubblica dove spiegammo le nostre ragioni e i cittadini capirono». L’idea era quella di costruire un luogo aperto, di coinvolgimento. Un luogo dove chiunque fosse invitato ad entrare, dove le porte fossero aperte anche la notte. L’esatto opposto del manicomio.
«Certo, una struttura di questo tipo costa – spiega Dell’Acqua – ci vuole più personale e attenzione ai luoghi: l’architettura, i mobili». Siamo andati a visitare un Csm a Trieste, anzi due: il vecchio, che stava per essere smantellato, e il nuovo, che lo stava per sostituire.

da L’Unità

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