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“Campus o trasloco? Le mani sull’ateneo”, di Daniela Preziosi

Facce scavate da notti senza sonno, caschetti gialli appoggiati sulla fila di banchi disposti in ovale a formare, con un po’ di immaginazione, un lungo tavolo conferenze. I docenti e gli studenti del senato accademico dell’università di L’Aquila ieri si sono voluti riunire, hanno voluto parlare di ripartenza, intanto hanno voluto guardarsi negli occhi per convincersi che a L’Aquila gli esami non finiscono mai. Nonostante tutto.
E tutto significa: il rettorato accasciato su se stesso, tre facoltà agibili su dieci, i laboratori recuperati a metà, le cliniche di medicina inutilizzabili, l’ospedale universitario, il famigerato San Salvatore, chiuso e sotto inchiesta. Soprattutto significa il morale a terra: l’ateneo ha pagato un prezzo durissimo a quell’impasto di ignavia, irresponsabilità e imponderabile che da dieci giorni passa alla cronaca con il nome di sisma. Quarantacinque studenti sono rimasti sotto le macerie. A loro, il rettore Ferdinando Di Orio – anche lui, come tutti qui, sfollato e senza casa – somministrerà una laurea ad honorem. Anche se l’unica maniera di onorare questi morti sarà ottenere una verità certificata dal giudice al posto dell’amaro dubbio che questi ragazzi avrebbero potuto non morire. Di Orio sospira e prova a guardare avanti, avanti c’è un ateneo da rifare da capo. Ed è, nessuno se lo nasconde, una magnifica preda di appetiti di ogni genere. Il rettore gira tra le mani il plastico della proposta di Carivaq, offre18 mesi per costruire tre edifici di 5mila metri quadrati ciascuno qui nelle vicinanze, località Canzatessa. Con banca e uffici al piano terra. Ricostruzione, dunque. Ma quale? «Non dobbiamo trasformare L’Aquila in una moderna Pompei. Ricostruire la città deve essere ricostruire l’università, come dire la sua anima, il suo motore, il suo futuro», dice. Il suo portafoglio, il rettore non lo dice, un magnifico non parla così. Ma è così: l’università è la più grande azienda del posto: 1.300 dipendenti, più 650 contrattisti. 24mila600 studenti di cui 12mila fuorisede. Muovono 150 milioni di euro l’anno, il 70 per cento delle risorse complessive della città. Dagli studenti ciascun aquilano guadagna qualcosa. Affitti, con contratto e non, ristorantini e locali, indotto: l’ultimo treno per una terra già piegata, la cassa integrazione aumentata del 1.200 per cento, dopo il fallimento del polo tecnologico. Il centro storico era la vera città degli universitari, «senza loro immaginare di farlo rivivere è impossibile», spiega Giannino Di Tommaso, preside di lettere. Ma le case che venivano affittate, 200-300 euro a stanza, erano belle fuori e fragili dentro. Quelle del centro medievale e le palazzine moderne degli anni 70. Accanto alla casa dello studente, sette morti e un’inchiesta, c’è un palazzo simile, di ragazzi ce n’erano 20, tutti morti.
Ricostruire, ma come convincerli a non scappare? Gli atenei fratelli, Teramo e Pescara, offrono ospitalità. Ma bisogna temere i greci, anche se portano doni. Il tesoretto di iscritti, docenti e saperi, è una magnifica preda anche per loro. E se trasloca l’università, gli aquilani resteranno soli con se stessi. «Facciamo di questa tragedia un’occasione di futuro reale. Non accontentiamoci della sopravvivenza, inventiamoci una città-laboratorio, una nuova città futura, con contributi di tutto il mondo. Apriamo la città all’università ai progetti, lavoriamo seriamente sulla coabitazione con il terremoto, mettiamo a lavoro su di noi i sismologi, i filosofi, gli scienziati dell’ambiente», dice Paola Inverardi, preside di Scienze. Qui oggi è arrivata la ministra Gelmini a promettere decreti e fondi, ma finora ci sono solo i 16 milioni per ricostruire la casa dello studente. Ma intanto questi soldi andranno alla regione. E poi se l’università non riparte a pieno ritmo, che cosa dovrebbero venire a fare a L’Aquila, gli studenti? E dove sistemare i fuorisede che vorranno restare, a patto che l’offerta didattica sia veramente speciale, e i loro alloggi sicuri, ma davvero? «Costruiamo un campus universitario di legno, il legno può rompere la barriera psicologica di quelli che hanno vissuto il sisma», propone Luca D’Innocenzo, assessore al welfare e presidente della Dsu, quella che gestisce la maledetta casa dello studente. «Tornate con i piedi per terra, qui siamo tutti diventati fuorisede», dice Alessia Ettorre, rappresentante dell’Unione degli studenti e studentessa di Ingegneria. «Volete fare gli esami? I nostri libri sono sotto le macerie. Ci servono dispense per studiare, sessioni di laurea aperte ad oltranza, trasporti gratuiti, azzeramento delle tasse». Comunque gli esami si faranno, qualche facoltà inizia già la prossima settimana. Le laure anche. Giannino Di Tommaso, preside di lettere, spiega che preferisce celebrare le lauree nelle tende che la protezione civile ha già promesso: molti studenti non hanno voglia di rientrare negli edifici, anche quelli dichiarati agibili.
Come qui, scienze, Coppito 1, periferia ovest. Una costruzione possente che esibisce i suoi massicci pilastri di cemento. Grigio su grigio, nessuna grazia. Quando fu costruito le polemiche sull’estetica si sono sprecate, oggi tutti si guardano con affetto quelle tozze querce quadrate che tutto sommato hanno tenuto. Ma i mattoni delle pareti interne sono esplose, le tamponature saltate, i due piani sono transennati e impraticabili. Si sta tutti al piano terra.
Nella grande agorà della facoltà di scienze l’università si è ricostituita in scala, aggiustandosi alla meglio. Un banco e un computer per ciascuna facoltà, così sono rinate le segreterie. Sulla sinistra, dietro un separé rimediato chissà dove, i server del sito dell’università, questi invece portati via dalle macerie da un gruppo di intrepidi, capitanati dal sismologo Antonio Moretti. Un’altra storia incredibile, quella dei sismologi della facoltà di scienze. Nessuno li ha interpellati, e sì che pure loro, spiega Moretti avvertivano che il grande sisma stava arrivando.

Manifesto, 16 aprile 2009

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