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“Quando i clandestini erano italiani: il passato rimosso come una colpa”, di Gian Antonio Stella

Quando gli emigranti eravamo noi, non tanto tempo fa, il co­mune di Giaglione, in Val di Su­sa, arrivò a chiedere aiuto alla prefettura di Torino «non avendo più ri­sorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi». Ogni notte, scriveva il «Bollettino quindicinale dell’emigrazio­ne » nel 1948, passavano da lì in Francia, illegalmente, «molto più di cento emi­granti ».
Erano in tanti, a lasciarci la pelle. «Due o tre al mese, almeno» dice il rap­porto di un agente del Sim, soltanto su quelle montagne dalle quali si scendeva verso Modane. Al punto che il sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprimo, fu co­stretto ad affiggere un manifesto per invi­tare le guide alpine (gli «scafisti» della montagna) a essere meno ciniche: «An­che se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbe­dendo a una legge del cuore (…) sceglien­do altresì condizioni di clima che non sia­no proibitive e non abbandonando i di­sgraziati emigranti a metà percorso».
È uscito un libro, su quella nostra di­sperata epopea. Si intitola Il cammino della speranza (come il film di Pietro Ger­mi ispirato alla copertina della Domenica che illustra la pagina), l’ha scritto Sandro Rinauro (Einaudi, pagine 442, e 35) e par­la dell’«emigrazione clandestina degli ita­liani nel secondo dopoguerra».

Come andasse «prima» un po’ si sape­va. Basta ricordare uno studio di Adriana Lotto secondo cui nel 1905 su quattro ita­liani al lavoro nell’Impero tedesco solo uno era registrato e gli altri tre erano «clandestini in senso stretto». O la rela­zione di Stefano Jacini jr alla Camera nel 1922: «Alla frontiera del colle di Tenda ogni notte decine e decine di lavoratori, per non dire centinaia, passano clandesti­namente la frontiera». Il libro di Rinauro toglie il fiato. E spaz­za via definitivamente (sventagliando 258 note bibliografiche per il solo capito­lo terzo) uno dei luoghi comuni intorno alla differenza «fra noi e loro». Ha detto Carlo Sgorlon: «Gli immigrati italiani, e quelli friulani in particolare, non erano mai clandestini. In genere erano grandi lavoratori, rispettavano le leggi locali, ra­ramente protestavano, non si ribellavano mai. Subivano quarantene, vaccinazioni, controlli di ogni genere». Non è così. Me­glio: era «anche» così, ma non solo. Ac­canto a quella «assistita» che «prevedeva il reclutamento degli emigranti da parte degli Stati d’esodo e di destinazione me­diante accordo bilaterale» e radunava quanti volevano andarsene (aspirazione che per un sondaggio Doxa del 1952 ani­mava perfino il 56% dei giovani lombar­di) nei centri di smistamento dove c’era «la selezione medica e professionale», c’era infatti l’«altra» emigrazione: illega­le. Ed erano soprattutto lombardi, vene­ti, piemontesi, friulani.
Certo, ci sono un mucchio di differen­ze tra l’emigrazione di allora e di oggi. Il mondo intero era diverso. Al punto che Charles de Gaulle, che amava come nes­sun altro la Francia ma sapeva quanto avessero contato nella storia patria il ligu­re Léon Gambetta, il piemontese Paul Cé­zanne (Paolo Cesana) o il veneto Emile Zola, si spinse a incoraggiare l’immigra­zione «al fine di mettere al mondo i 12 milioni di bei bambini di cui necessita la Francia in 10 anni».

Chiudeva un occhio, Parigi, in certi an­ni, sui clandestini. Come lo chiudevano i governi tedeschi, belgi… Perché, certo, le ripetute sanatorie urtavano l’Italia che cercava, attraverso gli accordi, di argina­re lo sfruttamento dei suoi emigranti. Ma l’economia reale badava al sodo e, spiega Rinauro, l’immigrazione illegale era «il meccanismo di elasticità che per­metteva alla rigida politica ufficiale del­l’immigrazione di adeguarsi a qualunque congiuntura». Pochi esempi? In Germa­nia «nel 1959 entrarono mediante la sele­zione ufficiale 24.000 lavoratori italiani a fronte di 25.000 emigranti ‘spontanei’». In Lussemburgo si inserirono illegalmen­te oltre un quarto degli immigrati tricolo­ri del 1958. Il Belgio era pieno di italiani clandestini espatriati «per il 50%» dalla Francia. E perfino la Svizzera, stando a un rapporto del ministero del Lavoro del 1954, era così permeabile che i «recluta­menti irregolari da parte delle ditte elveti­che » erano «il più alto contingente del movimento migratorio italiano per la Svizzera». Ma come: più irregolari che re­golari? Sì. «Considerando che tra il ’46 e il ’61 la media delle entrate annue degli italiani ufficialmente registrate si aggira­va sulle 75.000 — scrive Rinauro — si può avere un’idea sia pure imprecisa del­la grande entità dell’afflusso illegale».

Ma a gelare il sangue sono i dati fran­cesi: «Del campione de­gli italiani giunti dal ’45 nella regione parigi­na intervistati nel 1951-52 dalla famosa in­chiesta dell’Institut na­tional d’études démo­graphiques sull’immi­grazione italiana e po­lacca in Francia, ben l’80% era entrato senza contratto di lavoro, cioè clandestinamente o da ‘turista’». Per non dire di chi lavora­va nell’agricoltura. «Secondo il direttore della Manodopera straniera del ministe­ro del Lavoro, Alfred Rosier, alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipar­timento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Quanto ai fami­liari, «emigrò illegalmente» addirittura «il 90%». Solcando le Alpi, ad esempio, al di là della Val d’Isère fino a Bourg-Sa­int- Maurice dove nel settembre 1946 «ne arrivavano mediamente 300 al giorno, ma toccarono addirittura le 526 unità in una sola giornata».

Corriere della Sera, 16 aprile 2009

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