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“Gioventù di pietra”, di Giuseppe Provenzano

Si vive come in attesa, di questi tempi. Specie se hai vent’anni o trenta, non hai un contratto di lavoro, non hai ancora guadagnato cento euro. File di praticanti, in attesa che l’avvocato si accorga che non sei una segretaria. Molti in attesa di un concorso pubblico: come si dice, gli esami non finiscono mai. Gli esami sono finiti, e sono finiti i concorsi. Lo sanno quelli in attesa di una borsa di dottorato, o da ricercatore – ma meno, ché «fare ricerca è da figli di papà». In attesa di partire, spinti qua e là alla ventura,o verso le mete di sempre: il Nord, l’America, l’Australia.

E mentre Berlusconi sale nei sondaggi, l’Italia si laurea in scienze della comunicazione, che non è una facoltà: è il marchio, il modo d’essere più diffuso di una generazione. Deve attendere, chi ha la folle idea di fare sul serio giornalismo: meglio inseguire sceneggiature di fiction, fare l’autore di reality. Lì, almeno, lo zingaro, il transessuale, il giovane di provincia, possono farcela. Da Maria De Filippi a Sanremo: l’unica agenzia di mobilità sociale. Non si perde tempo, invece, alla sera nelle chat. Passione e compassione a buon mercato, anticamera di realtà, senza pudori e inibizioni. Piazza appartata e confortevole, perché la città è «lunghe distanze da colmare, parcheggi che non si trovano». E così è diventata l’Italia, lontananze marcate e soste impossibili, e a girarla viene «una gran malinconia». Giovani e Belli, il libro di Concetto Vecchio (Chiare lettere) sui trentenni di quest’Italia berlusconiana, si può leggere così, come una chat. Facendo zapping sulle rubriche, clic su quella che intriga, contatto: e scivolare in una storia, tra le «pieghe della medietà».

Una generazione che si svela in confessioni, lettere aperte e private, unica conversazione possibile. Vie d’accesso a un sottosuolo, dove è verace l’immagine del paese. Al sesso bulimico, al gallismo occulto e alle giovani trentenni stanche di socialità coatta, di ambizioni frustrate, «single per sempre». Sono molti i libri che negli ultimi anni denunciano il Mal di merito, come la più grave ingiustizia del paese, l’assenza di Meritocrazia, i Mediocri, potenti dell’Italia immobile. Una politica Contro i giovani, con Talento da svendere e Tutta la vita davanti, che invece di valorizzare lascia avvizzire o spinge alla fuga. Concetto Vecchio non ha tesi, si limita a dar voce a chi ha esperienza di questo male. Racconta l’intollerabile casualità di diventare, si fa per dire, “classe dirigente”: l’esercito di giovani donne, col mito della Gregoraci, candidate ed elette dal Pdl; la malintesa logica della rappresentanza che ha riempito il Parlamento di giovani corpi da vetrina, e di ruffiani.
“Il merito prima di tutto”, dicono Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, pronte a presentare le veline candidate alle europee, e solo la Fondazione Farefuturo di Fini ha un riflesso di decoro: Berlusconi cresce nei sondaggi. All’opposizione, l’incerto e maldestro rinnovamento del Pd. E nel libro sembra rimanga solo l’occhio lucido di intelligenza e ironia di Diego Bianchi, Zoro, a fare cronaca dello spaesamento. I giovani impegnati in giro per l’Italia non fanno notizia, non vanno in televisione: che senso avrebbe cooptarli? «Poiché i giovani sono pochi, logica vorrebbe che su di loro si investisse molto, assegnandogli maggiori responsabilità e funzioni di rilievo» dice Livi Bacci nel suo Avanti giovani, alla riscossa! Con la scienza dei numeri li chiama all’urgenza di un impegno.
Alla fine, basterebbe trovare il tempo e il luogo per parlarsi, coi giovani “passivi per necessità”: quelli che si raccontano a Vecchio, a cui la famiglia non paga l’affitto, e vanno ad abitare le borgate romane. Tra gente di colore diverso, e la stessa povertà caotica. Affitti in nero, da capogiro. Coprifuoco alla sera. E il Governo vola nei sondaggi. C’è il Nord, nel libro, con la disarmante sensazione che l’Università sia inutile: chi lavora da dopo la maturità può guadagnare più del doppio rispetto al primo impiego di un laureato. Poi, in Bocconi, dove si formerebbe la “futura classe dirigente”, si scopre una maggioranza senza curiosità del mondo, che non legge i quotidiani. E poi, c’è Catania in bancarotta, metafora di quella morale e materiale del Sud, dell’Italia intera. Tra la monnezza, rivolte delle plebi contro gli stessi politici che hanno riempito e riempiranno di suffragi.

Ci sono i 160 mila giovani strappati al Mezzogiorno. Da laggiù non si parte, si scappa. Una dice: «se tutte le intelligenze se ne andranno, alla fine resteranno solo i Gattopardi». No, è come nel romanzo, sono andati via anche i Gattopardi: sono rimaste le iene, gli sciacalli e le pecore. Avrebbe ben trovato il suo posto, nel libro, anche un altro sentimento: la noia. La stessa che raccontò Brancati, a Caltanissetta, di quel giovane che se fosse vissuto nei secoli passati sarebbe stato un pensatore, un poeta o un condottiero, ma «vivendo in Italia nell’epoca in cui gli era toccato di vivere, e avendo trent’anni nel ‘37, faceva l’unica cosa nobile che potesse fare un uomo come lui: si annoiava».

In quegli anni, nella stessa città, cresceva Emanuele Macaluso: racconta dei giovani intellettuali che nel dopoguerra entrarono in “connessione sentimentale” con un popolo offeso, dando ad esso dignità e speranza. Dice del lento spegnersi delle lotte meridionali, in un’Italia in cui è saltato ogni vincolo di solidarietà: così scompare il Mezzogiorno, e scompare la sinistra. Rivela che lui, ormai, ha perso la speranza. I giovani meridionali di oggi non l’hanno ancora conosciuta. O forse intuita disperando, sui morti ammazzati dalla mafia, oltre le parole degli striscioni, a Locri. Concetto Vecchio trascorre un anno intero tra questi giovani – l’anno in cui i vecchi litigavano su quando erano giovani loro: ovvio, tutti i meriti e tutte le colpe sarebbero del ’68. Il libro, in qualche caso racconta come è andata a finire. La vita da avvocato, la vita in Australia. La trentenne che ha trovato l’uomo, non perché lo volesse ma perché ha capito ciò che non voleva. Accontentarsi: come impone la “buona società”. La buona politica farebbe tutto il contrario. Giovani e Belli è uno sguardo su una gioventù pietrificata, in un tempo che si è fermato, che comprende chi aveva vent’anni in quel 1994 della “discesa in campo” e chi ha vent’anni oggi. Quelli che sono rimasti, e quelli che sono andati via cantando. E tutti che attendono: chissà, la fine di quest’epoca, e non lo sanno. Diceva Carlo Levi che, in certi momenti della storia, la sola fortuna sarebbe quella di essere così liberi dal proprio tempo, così da esso esiliati, da poter essere veramente contemporanei. Ma questa è una bestemmia. C’è la crisi e il terremoto. La conferenza stampa con Berlusconi, a suo fianco Gianni Chiodi, il governatore dell’Abruzzo. È lì, ci ricorda il libro, perché è «Giovane e Bello».

L’Unità, 7 maggio 2009

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