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“Sono leggi razziali che discriminano i cittadini sulla base dell’identità etnica”, di Federica Resta

La definizione di Dario Franceschini («leggi razziali») a proposito di alcune norme, già approvate o contemplate dal disegno di legge sulla sicurezza, ha suscitato scandalo. Alle reazioni furibonde del centrodestra («vaneggiamenti») si è accompagnato un qualche imbarazzo nel centrosinistra: forse si esagera un po’, signora mia. E invece, se l’evocazione storica può risultare problematica, le implicazioni giuridiche e sociali di quelle norme non lo sono affatto.

Sì, siamo in presenza di «leggi razziali». Nel senso che si tratta di norme che discriminano tra i cittadini in base alla loro identità etnica. Basti pensare alla cosiddetta «aggravante di clandestinità». Essa si applica a qualunque reato, per il solo fatto di venire commesso da un migrante irregolare, anche in assenza di alcuna relazione con la condotta a lui contestata e con il bene giuridico protetto leso da quel reato. Non meno discriminatoria la norma che qualifica come fattispecie penale quello che oggi è un mero illecito amministrativo, ovvero il soggiorno e l’ingresso irregolari nel territorio dello Stato. Si tratta di una norma in primo luogo inefficace (perché non fa che gravare i tribunali di processi destinati a concludersi con la prescrizione o con l’espulsione): e, soprattutto, dotata di una fortissima valenza culturale e simbolica. Ciò che viene punito, infatti, non è un comportamento, ma la circostanza tutta soggettiva di essere straniero e non in regola: responsabile soltanto, magari, di non aver rinnovato il permesso di soggiorno in tempo utile.

Si consideri poi che la norma si applica anche ai minori ultraquattordicenni imputabili, che peraltro – non potendo essere espulsi – saranno tra i pochi a subire un processo. Come si vede queste due norme hanno un tratto comune. In spregio al principio garantista e liberale che concepisce il diritto penale come diritto del fatto e non dell’autore, si incrimina non un (o si aggrava la pena non per un) comportamento ma si sanziona uno status amministrativo, quale appunto la condizione di regolarità. Se non sono «leggi razziali», queste, cos’altro sono? Né più né meno che altrettanti meccanismi di produzione di intolleranza per via istituzionale.

P.s. A proposito: ma perché tutti, proprio tutti (dal Tg1 ad AnnoZero) utilizzano il termine «clandestino» per definire chi, almeno finora, è semplicemente non regolare? A furia di stigmatizzare il «politicamente corretto», è fatale che si caschi nella trivialità dei concetti, oltre che delle parole.

L’Unità, 8 maggio 2009