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“Conservatorio Italia: precari per passione”, di Giuseppe Videtti

Nati per accogliere orfani e trovatelli, divenuti fucine di talenti e simbolo dell´eccellenza del nostro Paese, le scuole dove si insegna l´arte più difficile sono in crisi. Tagli in Finanziaria e mancanza di investimenti rischiano di disperdere un patrimonio unico. Viaggio tra i ragazzi che sognano di vivere del loro studio senza essere costretti a emigrare
La ragazza con l´arpa ondeggia, i capelli sciolti sulle spalle, un abitino di seta nero che le scivola sul corpo magro. Nel salone dell´hotel, fra marmi e tappeti, composizioni floreali e lampadari di cristallo, i clienti brindano, amoreggiano, parlano d´affari, divorano pasticcini col tè delle cinque. Lei dice: «Non scriva il mio nome, sono studentessa al conservatorio, lo faccio per sbarcare il lunario, prima o poi avrò un posto in orchestra». Poi entra nei bagni della hall per riapparire irriconoscibile in jeans, giubbotto e basco, pronta per la lezione serale. Uno dei 38.591 iscritti (1.309 sono stranieri) nei conservatori. In Italia ce ne sono cinquantaquattro più venti istituti musicali, con 7.357 insegnanti e circa 4.500 diplomati all´anno. Ora, con la Finanziaria che prevede tagli delle risorse fino al quaranta per cento, le prestigiose scuole di musica devono affrontare sacrifici e, inevitabilmente, ritoccare le quote d´iscrizione.
Il Conservatorio Verdi di Milano, fresco dei festeggiamenti per il bicentenario (millecinquecento iscritti, il venti per cento stranieri, duecentocinquanta insegnanti), ha solo sei impiegati e un numero insufficiente di bidelli. «È il personale previsto dalla legge del 1930, quando gli allievi erano duecento e i maestri trentacinque», protesta Bruno Zanolini, mezzo secolo trascorso tra queste mura, prima allievo, poi docente, infine direttore. «Si fa un gran parlare dell´arte, ma di fatto i primi tagli colpiscono sempre noi», aggiunge. «Quando arrivai io – ero bambino – eravamo in pochi. Oggi abbiamo ventiquattro classi di pianoforte e uno stuolo di studenti meno motivati, frenati dalla mancanza di opportunità. Non c´è il sacro fuoco di una volta, eppure chi s´iscrive non demorde. Si dice che il conservatorio sia una fabbrica di disoccupati. La verità è che il mondo del lavoro assorbe meno professionalità, ma non siamo allo sbando. Nulla è mai facile quando si ha a che fare col talento, la fortuna e una sfrenata competitività».
Francesco Saverio Borrelli, ex magistrato, è stato nominato nel marzo 2007 presidente del Verdi di Milano su proposta del Consiglio accademico. Nella bacheca fuori dal suo ufficio, un ritaglio di giornale strilla: «Busserò di porta in porta per raccogliere fondi». «Ho una grande passione per la musica, ma di gestione non so nulla», ammette Borrelli, diploma in pianoforte nel 1952 al Cherubini di Firenze, stesso anno della laurea in giurisprudenza. «Io sono qui affinché il prestigio del Verdi rimanga alto», aggiunge. «Quando sono arrivato ho subito precisato che non sono un finanziere e non ho agganci politici, ma mi hanno voluto lo stesso. Ed eccomi qua a fare i conti con i tagli e le magre risorse. Per natura non sono pessimista, ma bisognerebbe intervenire drasticamente. La riforma del 1999 ha lasciato insolute molte questioni. Non è stato chiarito, ad esempio, il valore dei titoli acquisiti nel sistema del tre più due (equiparato al corso di laurea più specializzazione). È impensabile che in Italia esistano settantaquattro istituti musicali che rilasciano titoli universitari».
Tra gli allievi l´idea della raccolta porta a porta ha fomentato incertezza. «La frase di Borrelli ci ha spaventati e la prospettiva che la tassa d´iscrizione di mille euro possa raddoppiare non ci fa certo piacere», dice uno studente di violino fuori sede. «Il mondo della musica non dà garanzie. Sarò fortunato se trovo un posto come insegnante o in orchestra. E perché no? Un impiego in musicoterapia. Musica leggera? Sì, ma a malincuore». Olivier Brunel, vent´anni, di Montpellier, è al Verdi per un Erasmus. Studia da baritono. Dice: «Preferisco il sistema italiano a quello francese. Qui il diploma ha più valore. Occupazione? Con la passione si riesce». Il Conservatorio Verdi, istituito con Regio decreto napoleonico nel 1807 fra le mura di una chiesa barocca, conserva intatto il suo fascino. Nel chiostro di Santa Maria della Passione risuonano le musiche degli allievi impegnati nei vari corsi. Musiche di Bach, Monteverdi, Haydn. Come ai tempi di Catalani, Ponchielli e Puccini, allievi eccellenti. Prima delle lezioni del mattino, i ragazzi s´incontrano alla caffetteria. I sandwich più richiesti: il Mozart con la cotoletta, il Wagner con würstel e crauti, il Beethoven col salmone.
C´è qualcuno che, in tempi difficili come questi, avanza polemicamente l´idea che i conservatori dovrebbero recuperare l´antica missione, quella per cui erano nati nel Quattordicesimo secolo: educare a un mestiere – non solo quello della musica – orfani e trovatelli che venivano «conservati» presso ospizi di pubblica pietà. A Napoli, fino alla fine del Settecento, ce n´erano quattro (più quello femminile dell´Annunziata), ricordati in una lapide all´ingresso del Conservatorio di San Pietro a Majella (novecento iscritti): «Già convento dei padri Celestini anno 1826, per volontà di Francesco I re delle Due Sicilie fu destinato ad accogliere la gloriosa scuola napoletana e a custodire le preziose testimonianze degli antichi e rinomati conservatori Poveri di Gesù Cristo, Santa Maria di Loreto, Sant´Onofrio a Capuana, Pietà dei Turchini». «Settantaquattro conservatori in Italia non sono troppi», dice il neodirettore Patrizio Marrone, «poiché a loro è affidata anche la formazione di base, in assenza di licei musicali e soprattutto di corsi di musica nella scuola dell´obbligo. A Parigi ce ne sono diciotto di quartiere contro i centosei di tutta la Francia, che conta anche su quattro accademie».
Situato nel cuore della città vecchia, il San Pietro a Majella, che ha festeggiato il bicentenario nel 2007, è scuola e museo. «Qui ha insegnato composizione Donizetti», racconta Tiziana Grande, la bibliotecaria che ha in cura quattrocentomila preziosissimi volumi che provengono dalle donazioni delle case reali borbonica e napoleonica, di privati ed editori e del Teatro San Carlo. «Il ministero ci tratta come se fossimo la biblioteca di un comune di mille anime», protesta, mentre subissata da richieste di consultazione da ogni parte del mondo si muove freneticamente tra i magnifici saloni della pinacoteca e il museo, che tra i preziosi strumenti d´epoca conserva anche una rarissima arpetta di Stradivari. «I conservatori hanno attraversato la storia», dice Marrone, indicando la scrivania preziosa e le antiche scansie che ancora adornano la direzione. «Sono anni di cambiamento: abbiamo due classi di jazz – ma se avessimo risorse potremmo farne tre – ci stiamo aprendo alla musica elettronica, che ha parecchi iscritti, e i corsi tradizionali godono di ottima salute».
Chiara Mallozzi, vent´anni, di Napoli, diplomata allo scientifico, studia musica elettronica e composizione con il vecchio ordinamento (cinque anni con la possibilità di frequentare un altro corso universitario). «E privatamente prendo lezioni di violoncello», aggiunge. «Ho fatto corsi in Germania, Austria, paesi dove il musicista è rispettato come un medico o uno scienziato. Da noi questa professione è vista come un handicap. La società non capisce bene chi siamo e cosa facciamo. Quando dico che studio musica, mi rispondono: sì, ma all´università che fai?». Bernardo Maria Sannino, ventiquattro anni, di San Sebastiano al Vesuvio, studiava fagotto già da liceale. Ora prende lezioni di piano privatamente e frequenta il primo livello di composizione. «Vorrei poter vivere di ciò che studio», esordisce. «Quello della disoccupazione è un problema sociale che investe i musicisti come gli ingeneri. Senza presunzione: io e i miei amici ci sentiamo culturalmente vivi. Ci vediamo la sera e suoniamo, invece di andare in discoteca o guardare Il grande fratello».
Il direttore conferma: «Anche i bambini: vanno a scuola, poi vengono qua. Consideri che non c´è strumento che richieda meno di due-tre ore al giorno, e la sera a casa a fare i compiti. Il conservatorio tiene occupati. Qui dentro c´è una percentuale zero di uso di droghe». Un allievo azzarda: «Magari diventerò il nuovo Giovanni Allevi». «Ogni generazione ha il Mozart che si merita», ammonisce Marrone. «Vediamo tra duecento anni se qualcuno si ricorderà di questo signore. Qui studiamo classici e contemporanei. Allevi, non ancora».
«La musica leggera è l´espressione dei nostri tempi. Stimo Allevi. Mi sembra orribile, invece, che l´Italia, il paese dove sono nati i conservatori, non riconosca socialmente la figura del musicista», dice Sergio Zanforlin, ventisei anni, di Palermo, impegnato nel biennio di violino al Conservatorio di musica Santa Cecilia di Roma (1.500 iscritti, 164 docenti), un´istituzione che risale al 1875 e ha diplomato Maderna, Giulini e Morricone. «Qui con una laurea in violino rischiamo di finire a fare i giullari», dice. «Uno investe in anni di studio, fa inenarrabili sacrifici economici e non torna niente. Non ci resta che espatriare».
Ma Edda Silvestri, insegnante di flauto traverso e da due anni direttrice del Santa Cecilia, è una lady di ferro, tutt´altro che disposta ad arrendersi ai tagli. «La situazione va affrontata politicamente, il nostro lavoro è quello di sensibilizzare i politici sull´importanza della cultura. Un popolo colto è comunque un popolo migliore. La fuga dei cervelli è mortificante. Per risolvere il problema occupazionale dobbiamo preparare artisti, ma anche manager, liutai, storici… insomma tutto ciò che serve nell´ambito musicale», dice, seduta nella stanza sontuosa ma austera e poco illuminata che le è stata assegnata.
Claudia Dominici, ventotto anni, di Roma, diplomata in arpa col vecchio ordinamento, è votata alla musica. Se le chiedono di suonare in un albergo, accetta volentieri. «Il lavoro c´è, le arpiste sono poche. Tra matrimoni, ricevimenti, sostituzioni e lezioni private riesco a pagare l´affitto e a vivere. Ma lo so già, finirò all´estero, a fare la professionista in orchestra. In Italia il nostro lavoro viene preso come un hobby». «Sono ragazzi speciali», conclude la Silvestri, «perché fanno il doppio degli altri. Quel che per molti è sacrificio, per loro è gioia. Il mondo di domani non può farne a meno». «La passione compensa tutti i sacrifici», esclama Claudia avviandosi verso l´uscita. Su via dei Greci si ferma a parlare con i compagni di corso. Esaminano uno spartito, si arrovellano su una nota. Nessuno indossa capi firmati, nessuno ha in mano un cellulare, nessuno ha nient´altro da ostentare se non passione e talento. I bidelli incominciano a chiudere i cancelli. Da un´aula lontana arriva il suono di un pianoforte. Lassù qualcuno fa ancora a pugni con Chopin.
La republica 10.05.09