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“Se l’Italia importa meno laureati della Turchia”, di Gian Antonio Stella

C’è un’immigrazione contro la quale non servono le motovedette per intercettare i barconi. E’ quella dei «cervelli». Che da noi non vengono comunque. Fermati, prima che dai guardiani alla frontiera, dal filo spinato di una politica insensata del lavoro, della ricerca, dell’intelligenza.Xenofoba non per razzismo ma per pi­grizia, clientelismo, gelosia accademica e professionale. Risultato: su 20 milioni di laureati dei paesi Ocse che arricchisco­no i paesi nei quali si sono trasferiti, quelli che hanno scelto l’Italia sono lo 0,7%. Meno di quanti hanno scelto la Tur­chia.

Un dato umiliante. Che emerge da un dettagliatissimo rapporto che animerà sabato a Pisa il convegno «Brain Drain and Brain Gain» (un gioco di parole sui cervelli in fuga e cervelli guadagnati) or­ganizzato alla Scuola Superiore «Sant’An­na » dalla fondazione Rodolfo Debenedet­ti con la partecipazione, tra gli altri, di Maria Stella Gelmini. Intitolato «La batta­glia dei cervelli: come attrarre i talenti» e curato da ricercatori di vari paesi (Her­bert Brucker della IAB, Simone Bertoli dell’Istituto Universitario Europeo, Gio­vanni Facchini della Statale di Milano), Anna Maria Mayda della Georgetown University e Giovanni Peri della califor­niana University of Davis), il rapporto esamina «le conseguenze della competi­zione internazionale per la manodopera altamente qualificata dal punto di vista dei paesi che ricevono i talenti». E i nu­meri, che sono sì del 2001 (ultimo censi­mento disponibile) ma sono inediti per­ché elaborati in questi mesi, ci fanno ar­rossire.

Vi si spiega infatti che, a causa dell’«at­tuale sistema a quote» che «non mira a selezionare i lavoratori più qualificati», gli stranieri laureati che vivono da noi «sono il 12% del totale, di cui solo l’1,8% possiede anche una specializzazione post-laurea». Si tratta della percentuale più bassa tra i paesi dei quali sono dispo­nibili i dati del censimento. Di più: «Gli stranieri che arrivano nel nostro Paese sono mediamente più istruiti degli italia­ni, ma meno degli immigrati che si diri­gono in altri Paesi europei, soprattutto in quelli che adottano politiche di immi­grazione selettive». Qualche esempio? In Italia ogni cento laureati nazionali ce ne sono 2,3 stranieri contro una media Oc­se di 10,45. Negli Usa ce ne sono 11 ab­bondanti, in Austria 12, in Svezia 14, in Olanda e Gran Bretagna 16, in Nuova Ze­landa 21, in Canada 25, in Irlanda 26, in Australia addirittura 44.

Va da sé che il rapporto fra «cervelli» che esportiamo e importiamo è perden­te. I laureati italiani che se ne sono anda­ti a lavorare nei 30 paesi Ocse sono 395.229. Quelli che hanno fatto il percor­so inverso 57.515. Con un saldo negati­vo di 337.714 «dottori». Saldo che, an­che ad aggiungere gli 84.903 laureati arri­vati da paesi non Ocse, resta altissimo: ci mancano 252.811 «teste». Gente che, mentre importavamo mungitori di muc­che pakistani e raccoglitori di pomodori nigeriani, ha regalato intelligenza, prepa­razione, fantasia a università e istituti di ricerca e aziende e sistemi professionali meno arroccati dei nostri.

Certo, non siamo i soli ad avere un sal­do in rosso. Anche la Francia per esem­pio, rispetto al panorama import-export all’interno dell’Ocse, è sotto di circa 70mila «cervelli». La Spagna di 43mila, l’Olanda di 84mila, la Germania addirit­tura di 370mila.

Ma tutte queste grandi nazioni (tran­ne la Gran Bretagna, sulla quale pesa la storica emorragia verso l’ex colonia ame­ricana) non solo attirano molti ma molti più laureati di noi ma recuperano con l’immigrazione qualificata dai paesi non Ocse fino ad andare in attivo. Peggio di noi stanno solo la Corea, il Messico e la Polonia.

Quanto ai poli di attrazione, fanno in­vidia il Canada (che tra immigrati laurea­ti di paesi Ocse e non Ocse va in attivo di due milioni e 200 mila unità), l’Australia (in attivo di un milione e 520mila) e gli Stati Uniti, capaci di attrarre complessi­vamente quasi dieci milioni di «dottori» stranieri. Una forza d’urto intellettuale, scientifica, professionale impressionan­te. Che straccia ogni confronto. E che proprio in momenti di crisi quale questo rischia di pesare come l’enorme differen­za tra loro e noi. Con le nostre università piene di mogli, figli e cognati. I nostri istituti di ricerca asfissiati da conti­nui tagli di bilancio. Le nostre azien­de familiari dove il padre preferi­sce passare al figlio, magari un po’ «mona», piuttosto che affidar­si a «forestieri». I nostri Ordini sbarrati con i catenacci verso i giovani «intrusi».

Certo, quelle degli altri sono società «multietniche». Che qualcuno, da noi, guarda con fa­stidio. Ma ce la possiamo per­mettere una società ermetica­mente chiusa e protetta non so­lo dalle motovedette ma anche dai vigilantes degli orticelli scientifici e professionali in un mondo in cui, come spiegava l’al­tra settimana sul «Sole 24 ore» Giorgio Barba Navaretti, i lavoratori immigrati sono «uno ogni quattro in Australia, ogni sei negli Usa, ogni nove in Gran Bretagna e ogni quindici in Ita­lia »? Certo è che i risultati sono lì, nella tabella del rapporto di Pisa: dei 20.426.737 «cervelli» del gruppo Ocse che si sono sparpagliati per il mondo con­tribuendo alla ricchezza dei paesi prescel­ti, più della metà sono finiti negli Usa, un settimo nel Canada, un dodicesimo in Au­stralia. E solo 7 su mille (sette su mille!) hanno scelto la penisola di Leonardo Da Vinci, Antonio Meucci, Enrico Fermi che non a caso forse se n’erano andati loro pure all’estero. Fate voi i conti: di questo immenso patrimonio umano e intellet­tuale mondiale siamo riusciti ad attinge­re sette gocce: la metà della Svizzera, un quarto della Francia, un settimo della Germania, un nono della Gran Bretagna. E meno male che abbiamo il sole, Vene­zia, Capri, la pizza, il prosecco…

Corriere della Sera, 20 maggio 2009