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“Badanti, il welfare che viene dall’est” di Chiara Saraceno

Seicentomila circa iscritte all’Inps, altrettante se non più lavoratrici totalmente in nero, secondo le stime di Acli-colf. Quasi tutte straniere. Se non ci fossero loro, migliaia di famiglie italiane non saprebbero come far fronte ai bisogni di cura dei loro anziani divenuti fragili, parzialmente o totalmente dipendenti.
Non perché nelle famiglie sia aumentato l’egoismo e diminuita la disponibilità alla solidarietà intergenerazionale. Gran parte del lavoro di cura nei confronti delle persone parzialmente o totalmente dipendenti, per lo più anziani, è ancora svolto da un familiare, per lo più donna: una moglie, una figlia, una nuora. Ma non sempre questa disponibilità basta. Molte persone che si prendono cura di un anziano fragile sono a loro volta anziane e da sole, spesso, non ce la fanno. Molte figlie e nuore oggi hanno anche un lavoro, oltre alla propria famiglia, cui pensare. Soprattutto, lo squilibrio demografico, di cui tanto si parla quando si discute di spesa pensionistica, si sperimenta direttamente nelle reti parentali. Se un tempo era raro invecchiare avendo ancora i genitori in vita, oggi è sempre più frequente. Ma quei genitori che vivono così a lungo hanno avuto meno figli dei loro propri genitori.

Questo rovesciamento dei rapporti di età e degli equilibri demografici non avviene solo in Italia, naturalmente. E anche altri paesi devono ripensare le proprie politiche della cura. Ma in Italia queste non sono mai davvero decollate e ci si è cullati a lungo nell’illusione della famiglia come soluzione a tutti i problemi di dipendenza – da quella economica appunto a quella dalla cura. E le famiglie, in effetti, si stanno arrangiando. Approfittando della novità rappresentata negli ultimi anni del fenomeno di una offerta di lavoro migrante a basso prezzo, hanno integrato il welfare familiare con il ricorso al lavoro di cura, appunto, delle immigrate. L’esistenza della indennità di accompagnamento ha consentito anche alle famiglie a reddito modesto di acquistare almeno qualche ora di cura, alleggerendo così in parte il carico familiare, o sostituendolo per coloro che non hanno figli, o li hanno troppo lontani. Si è venuto così sviluppando un pezzo di welfare a metà tra la famiglia e il mercato, con pochi diritti per tutti i soggetti coinvolti, e allo stesso tempo frutto di complicità incrociate: le famiglie datrici di lavoro chiudono un occhio sulla clandestinità, perché consente loro di pagare di meno; le lavoratrici, se sono clandestine accettano di essere pagate poco pur di guadagnare e sperando in una futura regolarizzazione; se hanno il permesso di soggiorno, accettano di non essere messe in regola, o di esserlo solo parzialmente, per guadagnare qualche cosa di più. L’irregolarità del lavoro di cura, così come di quello domestico, non è un fenomeno nuovo. Anche quando era fatto prevalentemente da italiane (per lo più migranti interne), il tasso di iscrizione all’Inps era bassissimo. Ed era, come è tuttora, frequente che il numero di ore denunciato e/o il compenso fosse più basso dell’effettivo. Non solo perché non era ritenuto un “lavoro vero”, ma anche perché il contratto delle colf prevede bassissime coperture assicurative, disincentivando dal pagare più del minimo. Le straniere, quando hanno il permesso di soggiorno, hanno in effetti più convenienza delle italiane a “farsi mettere in regola”. Perché da ciò dipende il mantenimento del permesso stesso.

Aumentare questa convenienza, anche per le famiglie, e insieme garantire meglio la stabilità e qualità dei rapporti di lavoro di cura dovrebbe stare a cuore a tutti. Le proposte non mancano e ci sono anche alcune sperimentazioni locali: trasformare l’indennità di accompagnamento in un buono-servizi che può essere speso solo per rapporti di lavoro in regola e distinguendo, come propongono anche le Acli, tra lavoro domestico e lavoro di cura; consentire alle famiglie la detrazione del costo per una assistente familiare – certificata e regolare; legare i contributi pensionistici, quindi anche la pensione, alla retribuzione effettiva e non a quella convenzionale; istituire canali di reclutamento ed anche formazione che offrano maggiori garanzie a famiglie e lavoratrici.

A fronte di questa situazione di forte domanda di cura e di carenza di regolazione e di garanzie, che cosa fa lo stato? Pressoché nulla. Ha allargato un po’, ma non abbastanza, la quota riservata alle “badanti” – brutto e squalificante termine – nel decreto flussi, facendo finta di ignorare che non si tratta di andare a reclutarle all’estero, ma di regolarizzare quelle che già ci sono. Ed ora, con il pacchetto sicurezza, ha reso ulteriormente confusa e aperta a mille ricatti la situazione. Accanto ai presidi che fanno pubblici elenchi di potenziali allievi clandestini vedremo vicini di casa che denunceranno la presenza sospetta di badanti?
La Repubblica 23.05.09

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