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“Revisionismo peso piuma. Il trionfo della memoria ad hoc”, di Michele Prospero

Una memoria condivisa che riconcili chi si è schierato su fronti opposti nelle esperienze traumatiche del ‘900: questa è la formula magica che viene impiegata sempre più spesso. Il tema della pacificazione di per sé non è nuovo, anche De Gasperi lo sollevò sul finire dei ‘40. Questo vecchio problema di un oblio riparatore delle ferite è però diventato di scottante attualità soprattutto nei primi ‘90. Aldo Giannuli (L’abuso pubblico della storia) fissa al riguardo una data simbolo: nel 1994 i partiti dell’antico arco costituzionale totalizzarono insieme solo il 45% dei consensi. Appena due anni prima avevano ancora il 75%. Si registrava dunque nelle urne della nuova Italia maggioritaria una catastrofe della coalizione dominante che aveva progettato e gestito per mezzo secolo la democrazia dei partiti. La destra è invece passata in modo fulmineo dal 14%, riscosso nel 1992 dal Msi e dalla Lega, al 43% dei suffragi riportato dal polo della libertà nel 1994. È chiaro che il successo della destra ha segnato una discontinuità politica e anche simbolica. La Resistenza è stata dipinta come una guerra civile prolungata ingaggiata da combattenti senza scrupoli desiderosi di godere del rito purificatore del sangue dei vinti. Anche il Risorgimento è stato saccheggiato da un revisionismo grottesco che rimpiangeva gli antichi particolarismi feudali perché, scrive Giannuli, la Lega si trovava «in singolare sintonia con il revisionismo sanfedista e neoborbonico». La crisi del sistema politico suggeriva alla destra di agitare un populismo storiografico e sorreggerlo con una «straccioneria culturale», così Giannuli, che inventava una memoria storica ad hoc, imponeva un cambiamento dei nomi delle piazze, convocava commissioni parlamentari di inchiesta per dichiarare l’opposizione da bandire. Un uso politico alquanto pacchiano della storia attingeva nei dossier Mitrokhin le prove del Pci come formazione sleale e nemica dell’occidente. Con un materiale dal «valore probatorio assai prossimo allo zero», osserva Giannuli, la maggioranza provava a riscrivere una storia di comodo e imprimeva il timbro autoritario dello Stato per espellere le opposizioni stigmatizzate come antinazionali.

IL CANONE DECOMPOSTO
A contribuire al successo politico della destra, secondo Giannuli, è stato però anche lo sfaldamento del canone gramsciano-azionista, egemone nelle culture politiche della sinistra. Nel corso degli anni ‘80, il canone si decomponeva. Naufragava l’elemento più gramsciano-togliattiano (la democrazia organizzata) mentre prevaleva l’istanza più di marca azionista che nell’interpretazione dei processi storico-politici «esasperava la vena moraleggiante». Questo tono etico ha avuto profonde ricadute politiche diffondendo una lettura della storia repubblicana come densa di opacità, di complotti, di golpismo strisciante. Con tutte le degenerazioni ormai accertate, per Giannuli «rappresenta una forzatura liquidare la classe politica di governo della prima repubblica come una associazione a delinquere» dimenticando la crescita economica e civile, la vitalità democratica dei partiti e dei movimenti. Un giudizio liquidatorio verso la complessiva esperienza della prima repubblica per Giannuli ha contribuito, nei primi anni novanta, alla evocazione di soluzioni carismatiche pronte ad attecchire. La sinistra sosteneva il movimento referendario e agitava la bandiera della liberazione dalla partitocrazia e «questa vulgata veniva assorbita dal limaccioso fiume in piena dell’antipolitica».

IL MAGGIORITARIO
Giannuli ricostruisce bene le ragioni della slavina del sistema politico. «Furono i mutamenti interni al Pci a determinare la svolta decisiva», egli scrive. Privo di prospettive politiche immediate, il Pci e i suoi eredi videro nel maggioritario l’ancora di salvataggio che li affrancasse dall’esclusione. Purtroppo, nota Giannuli, la nuova legge elettorale maggioritaria si è rivelata a tutti gli effetti «una rottura costituzionale in senso pieno». La partita che seguì all’adozione del maggioritario non fu quella sperata, cioè una competizione modernizzatrice tra i progressisti aggregati dal Pds e i moderati radunati da Segni. La discesa in campo di Berlusconi fece saltare gli equilibri e raccolse il vento dell’antipolitica portandolo subito al governo. Il revisionismo diventava allora un’arma politica di forze estranee che avvertivano come un impaccio la carta «sovietica» del 1948. La cosiddetta riconciliazione nazionale comportava la completa damnatio memoriae, con una overdose di giornate della memoria, con un regime di mezzadria in cui vittime e carnefici spesso si confondevano. Rispetto a questo spettacolo poco edificante, non servono arroccamenti ma, così conclude Giannuli, «la storiografia repubblicana deve rifondarsi tornando a essere eresia».

L’Unità, 26 maggio 2009