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“I rischi della normalità”, di Luciano Gallino

Da qualche tempo si vanno moltiplicando le dichiarazioni di autorità, operatori economici ed esperti secondo le quali il peggio della crisi sarebbe passato. Se non la luce, in fondo al tunnel si scorge un fioco chiarore. Imprenditori e consumatori appaiono un po’ meno pessimisti riguardo al futuro. Il commercio mondiale pare stia risalendo.

Da tutto ciò i dichiaranti deducono che si sta avvicinando la ripresa, il ritorno alla normalità della crescita per il nostro paese e per il mondo.

Il rischio che i neo-ottimisti non vedono, o hanno deciso di non vedere, è che il peggior lascito della crisi sarebbe precisamente un ritorno alla normalità. La crisi esplosa nel 2008 nonè stato un incidente di percorso dell’economia mondiale. È stata piuttosto un’espressione di quello che per una trentina d’anniè stato giudicatoe lodato come il suo normale funzionamento. Era normale per il sistema bancario mettere in circolazione quasi 700 trilioni di dollari di derivati al di fuori delle borse, sì da renderli non rintracciabili dalle autorità di sorveglianza. Le quali, da parte loro, trovavano affatto normale fingere di non vederli. Ma era comunque bene non fare nulla, giacché i mercati finanziari normalmente si auto-regolano, facendo affluire i capitali là dove sono meglio utilizzati per produrre occupazione e ricchezza. Dove si capisce perché nel bene o nel male, come diceva Keynes nelle due ultime righe della Teoria generale, le idee siano più pericolose degli interessi costituiti.

In base alla idea dominante di normalità, era giudicato ugualmente naturale che l’industria manifatturiera dell’Occidente arrivasse a sviluppare un suo sistema finanziario capace di generare una quota di fatturato quasi pari alla produzione di beni materiali; insuperati, in questo, i costruttori di automobili statunitensi, appropriatamente definiti da una ex manager dell’alta finanza (Nomi Prins) «banche che vendevano automobili». E in complesso non era forse considerato l’essenza della normalità un sistema economico che spende trilioni di dollari l’anno in pubblicità e marketing per convincere un miliardo e mezzo di persone a consumare beni in gran parte superflui? Intanto che, si noti, non trova i quattro o cinquecento miliardi annui che basterebbero per dimezzare la quota di coloro che sopravvivono con un dollaro al giorno (1,4 miliardi, secondo le ultime stime della Banca Mondiale), o non dispongono di servizi igienici (2,6 miliardi), o soffrono la fame (1 miliardo, ma in aumento), ovvero abitano in slums (oltre 1 miliardo); o, ancora, il numero dei bimbi che muoiono prima di compiere cinque anni a causa di un raffreddore o un mal di pancia (10 milioni l’anno, 25.000 al giorno).

Ove si consideri che tutto ciò rappresentava la normalità pre-crisi, va aggiunto che sia l’attesa passiva che essa prima o poi si ristabilisca da sola, sia l’intento di accelerare attivamente il ritorno ad essa, aprirebbero la porta a scenari assai peggiori di quelli attuali. Anzitutto si porrebbero le premesse per il verificarsi di un’altra crisi dell’economia mondiale, più grave di quella in corso, entro pochi anni. Basterebbe ricordare che nel volgere di appena un decennio il sistema finanziario e quello ad esso intrecciato delle corporation finanziarizzate hanno fatto registrare ben quattro crisi di portata planetaria.

Ciascuna di queste crisi ha rischiato di affondare l’economia mondiale, con un livello di rischio crescente tra la precedente e la successiva.

Ciascuna rifletteva la normalità del sistema in quel dato momento. Ora è vero che la memoria degli operatori economici è notoriamente corta, e altrettanto quella dei governi. Ma aspettarsi ancora una volta che la normalità ritorni, senza provvedere a interventi regolativi sull’insieme del sistema finanziario e industriale del mondo, significherebbe davvero credere che gli asini volano.

Un danno non minore che un ritorno al business as usual provocherebbe sarebbe che la insostenibilità da più punti di vista del sistema economico odierno (o modello di sviluppo che dir si voglia) avvicinerebbe il momento in cui essa comincerebbe a tradursi, più rapidamente di quanto già non faccia ora, in immani tragedie collettive. Avrà forse esagerato un po’, il principe Carlo d’Inghilterra, nell’indicare in soli 99 mesi il tempo per salvare il pianeta. Il fatto è che il rischio non viene solo dal cambiamento climatico. Per assicurare entro una o due generazioni una vita decente a qualche altro miliardo di persone non ci sarà acqua a sufficienza. Lo dicono i rapporti Onu sullo sviluppo umano. Non ci saranno prodotti alimentaria sufficienza, perché le superfici destinate ad usi agricoli si vanno riducendo a causa dell’erosione e salinizzazione dei suoli, dello sviluppo delle colture per la produzione di agrocarburanti, della distruzione di interi eco-sistemi. Per diffondere in tutto il mondo i consumi oggi normali dell’occidente non ci saranno nemmeno abbastanza metalli o carbone o petroli, né abbastanza mari, forse nemmeno abbastanza ossigeno. Bisognerebbe dunque darsi da fare allo scopo non di ricostruire la normalità di ieri, bensì di sviluppare una idea diversa di sistema produttivo e finanziario normale. Per il momento bisogna ammettere che né l’Unione Europea né gli Stati Uniti sembrano muoversi con decisione in tale direzione, al di là delle generiche quanto inconsistenti dichiarazioni del G-20 e delle terribili quanto inette minacce rivolte ai paradisi fiscali o ai fondi speculativi. Visto che in campo economico e politico non sono molti quelli che si lasciano influenzare da nuove teorie dopo i venticinque o i trent’anni – è ancora un pensiero di Keynes – forse si dovrà mandare al potere i ventenni. A condizione di farli transitare in un sistema scolastico e universitario meno prono dell’attuale al consenso di Washington o di Bruxelles.

La Repubblica, 3 giugno 2009