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Dossier l’Unità “Le donne e il lavoro”

“MAMMA, CHE MANAGER”, di MARIA ZEGARELLI
Come vedono le proprie madri i figli delle donne in carriera? Stanche, con il polso fermo, ma sempre presenti quando ce n’è bisogno. E alla fine le preferiscono a quelle
«che non lavorano o lavorano poco». A raccontarlo sono proprio loro in un’indagine.

Madri dirigenti, figli soli e infelici? Non è detto che sia così. Non sempre, infatti, avere una madre che lavora molto e riveste ruoli di responsabilità professionale significa crescere sentendosi meno «accuditi» e seguiti di chi ne ha una casalinga o comunque con molto tempo libero. A tracciare il quadro stavolta sono proprio loro, i figli, che raccontano attraverso un’indagine della Fondazione Istud di Milano, come vivono il loro rapporto con una madre manager. L’indagine, svolta tra gennaio e marzo scorsi, ha coinvolto 15 bambini e ragazzi divisi per fasce d’età, di 10-12 anni; 14-15 e 17-18, che hanno effettuato sei colloqui e undici madri manager con almeno un figlio.
Un primo bilancio: il minor tempo trascorso insieme può trasformarsi in un rapporto madre-figlio più intenso, ferma restando, ovvio, l’altra faccia della medaglia: sensi di colpa e spesso grande stanchezza da parte della madre, desiderio di un maggior numero di ore da trascorrere insieme da parte dei figli. Un equilibrio difficile da raggiungere, ma, stando a quando emerge dall’indagine, i figli crescono in un clima di serenità di fondo che compensa la mancanza di una mamma a tempo pieno.
I momenti clou della giornata. «La cena è quando si raccontano le cose» e la domenica «è il giorno per stare con la famiglia». Il resto della settimana, invece, è quando si lavora e ci si saluta la mattina, ci si telefona, anche tante volte, e poi si sente ogni tanto un po’ di nostalgia. Capita quando la mamma «fa un lavoro tipo dirigente d’azienda». Una mamma così è una che si alza presto, pranza sempre fuori e la sera torna sempre tardi e fatica a spingere il lavoro fuori dalla porta. «Il suo cellulare squilla sempre, lei a volte rifiuta, ma se chiamo io non rifiuta mai». Una madre impegnata e un padre presente, che contribuisce alla gestione della casa, della quotidianità.
Ma come vedono la propria madre i bambini? «È euforica, contenta, anche se ha i suoi momenti…» ma, alla fine «a me piace come è la mia mamma». Se devono immaginarsela sotto forma di animale, il simbolico è forte: «È un delfino, perché espansiva», oppure un orso, «perché le piacciono i dolci, perché appena si stende sul divano si addormenta», o una formica, «perché lavora tanto», un’aquila, «per la sua autorità e generosità», ma anche «una leonessa, si occupa dei figli e stabilisce ordine in casa», per certi «aspetti anche un gatto». Un canguro, sol suo marsupio.
Una mamma che lavora, alla fine, funziona considerato che «se fosse lì sempre non sarebbe così piacevole e poi diventerebbe stressante». «Scapperebbe di casa», secondo alcuni, «uscirebbe pazza», secondo altri. E poi quando c’è «è più passionale con noi, perché non da per scontato di vederci sempre». Passionale, ha risposto questo bambino. Una bimba: «Io ho rispetto anche per le mamme che non lavorano, o lavorano ma lavorano poco». Anzi, a volerla dire tutta, «anche io da grande voglio lavorare come lei», però tornando a casa prima la sera. Idee chiare anche rispetto al proprio futuro, immaginato tra i 10 e i 14 anni: tutti concordi nel voler lavorare, ma nessuno vuole fare «quello che fa mamma». «Io voglio fare l’attore, un lavoro un po’ più creativo, non mi piace il lavoro di mia madre, mi dà un’idea di grigio». Oppure: «Non voglio fare la dirigente, è noioso». Nessuno dice di voler fare altro perché essere manager porta via troppo tempo. Concordi, sia a 10 sia a 17 anni, la mamma dirigente fa alzare il tenore di vita. Di tutti. In genere la guardano con grande ammirazione, ne colgono «il polso duro» e la dolcezza, «la grande fatica», ma anche «la presenza quando ne ho bisogno». Fuori di casa l’associano a Pc e cellulare, appunti e agenda; dentro le mura domestiche allo stesso atteggiamento manageriale, «fa la dirigente anche con noi», «programma sempre tutto», «è spesso nervosa perché deve fare mille cose insieme», ma «è attenta al minimo dettaglio anche per la famiglia, gestisce la famiglia come il lavoro», e poi «da noi figli si fa manipolare, in ufficio no». Ai più piccoli la parola mamma evoca: «Cioccolato e biscotti», «una mamma-mamma»; «fogli e penne»; «un vestito da lavoro».
È quando diventano più grandi, tra i 17 e i 18 anni, che la prospettiva cambia. Guardandosi indietro, ricordano quando «ero sballottata da una mamma all’altra delle mie compagne, e poi avevo la baby sitter, che sono sempre state ragazze buone e divertenti, mi sono anche divertita stavo con persone diverse, non ne ho risentito», o quando «lei mi stava vicino ogni volta che ce n’era bisogno». Pensano a quelle volte «che invidiavo le compagne con la mamma che veniva a prenderle all’uscita a scuola», ma poi adesso dicono «no», perché «le altre avevano madri frustratissime, e quindi un rapporto pessimo con la figlia. Erano poco presenti anche se non lavoravano».
Percepiscono una presenza molto forte della figura materna, che assolve una funzione di vigile controllo, soprattutto rispetto allo studio. «È premurosa, attenta i minimi dettagli, prudente e timorosa per quanto riguarda i figli. È pragmatica e organizzata, non si dispera per i problemi». Svantaggi? Ce ne sono eccome: ha degli orari impossibili, , vorrei che lavorasse meno, a casa è una leader, ti trasmette una certa ansia da prestazione. Poi, però, rispondono anche. «Mi sento spronato, mi mette una voglia di seguirla…». «Sento uno stimolo, non una pressione…». Frasi così, che se ti fermi a pensarci ti sembra che sì è una «mission possible».
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«Meno tempi morti e tutti a casa prima»

L’idea della ricerca è venuta a Marella Caramazza, direttore generale della Fondazione Istud, che da anni si occupa anche del tema della valorizzazione delle donne nel lavoro e nelle organizzazioni aziendali. Una dirigente che è anche madre, e che dice, parlando dei figli, «vorrei essere nelle loro menti e nel loro cuore per sapere cosa pensano e cosa provano». Poi, è stato naturale passare all’esperienza delle mamme. Esperienze personali diverse, «ma anche assimilabili per elementi ricorrenti, in quanto legati a un contesto di mentalità aziendale diffusa, sia in positivo, sia in negativo». Quasi tutte, hanno vissuto il momento della maternità come «critico»: lasciare il lavoro o tentare di conciliare entrambe le cose? E come comunicare all’azienda l’arrivo del pargolo. Una donna lo ha vissuto con un senso di colpa, tanto che «la mia psicologa ad un certo punto mi ha scossa dicendomi “Tu non hai sposato la tua azienda2». Un’altra: «In un certo senso avevo quasi paura a rivelare di essere incinta». Anche se poi, hanno preso atto che essere diventate madri non le ha discriminate. Anzi, «ho imparato nel corso della mia professione a dire dei no». La maternità come momento di crescita anche professionale, oltre che personale, vero, ma anche fasi di grande dubbi, «lasciare o no il lavoro?». E la soddisfazione di non aver ceduto. Soprattutto in quelle aziende molto «maschili», dove capita che quando una donna resta incinta, ti «massacrano in termini di messaggi negativi». Circostanza che si verifica anche nelle aziende multinazionali dove vi sono in genere politiche ufficiali di work-life balance. Molte ammettono di avere avuto sensi di colpa o verso la famiglia o verso il lavoro, altre ammettono di averli superati verso entrambi. Anzi, cercano di trasferire nella vita familiare la dimensione di ricchezza e competenza acquisite nel campo professionale e viceversa. E se la tendenza è quella al perfezionismo anche come genitore, poi si scende a più miti consigli. «Non sono una buona cuoca, ma preferisco riuscire a cucinare sempre io per mio figlio». Quando sono loro a decidere i tempi aziendali puntano ad una rivoluzione: «Meno tempo dedicato al cazzeggio, riunioni di buon mattino, concrete, maggiore concentrazione e meno presenzialismo».
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Dieci anni per avere la promozione e spesso rinuncia ai figli per la carriera

È laureata (nel 70% dei casi), età media 45 anni, almeno venti di lavoro alle spalle, da circa 10 dirigente. e in stragrande maggioranza sposata, o convivente, ma nel 43% dei casi non ha figli. Il profilo della manager made in Italy emerge da un’indagine effettuata da Federmanager che dal 2000 osserva i dati sulla dirigenza femminile. La ricerca è stata condotta attrraverso un questionario inviato alle associate in Lombardia che hanno risposto in 1200.
In cima ai loro interessi ci sono nell’ordine: la famiglia, i viaggi, gli amici e le atticità ricreative. Per la maggior parte di loro il lavoro è una necessità per la propria autonomia personale, oltre che un’opportunità dic rescita. Per il 31,3% è un’esigenza di natura economica e soltanto il 12,2 lo ritiene un’occasione favorevole per lo sviluppo dei rapporti interpersonali. Il 70% delle manager è stata nominata tale intorno ai 38 anni, e la stessa percentuale nella gestione della routine domestica e dei figli si avvale di una collaboratrice part-time, della famiglia e di una baby sitter.
Altro dato: nelle posizioni apicali più si sale più si sacrifica la vita privata. Sono soprattutto le donne ai vertici a non avere figli (il 43%), mentre la stessa posizione professionale incide molto meno sulle scelte degli uomini (solo il 14% non ha figli).

l’Unità del 17 giugno 2009