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“Stipendi, è (quasi) parità tra uomini e donne”, di Rita Querzè

Contrordine, le donne non so­no meno pagate degli uomi­ni. Guadagnano un po’ me­no — un pizzico, uno zic, un qb — ma le discriminazioni vere sono un’altra cosa. Perché alla fine il ta­glio alle buste paga rosa si ferma al 2%. Soldi veri, è chiaro. Che potreb­bero comprare un rossetto, un pan­nolino, un cinema in più. Ma pur sempre una penalizzazione più con­tenuta rispetto al meno 7% stimato dall’Istat nel 2007, al meno 17% va­lutato da Unioncamere nel 2008, al taglio dell’8,75% annunciato dal­­l’Isfol nel 2009 o al meno 16% accer­tato, sempre quest’anno, dall’Euri­spes.

Quadri rosa più penalizzati
La stima del meno 2% è dell’osser­vatorio sulla Gestione della diversi­tà dell’università Bocconi in colla­borazione con Hay group. Lo studio completo sarà presentato martedì prossimo a Milano. «La novità è che non ci siamo fermati a valutare la differenza tra lo stipendio medio delle donne e degli uomini ma sia­mo andati a vedere quanto guada­gnano esattamente un uomo e una donna a parità di qualifica, mansio­ne, inquadramento, anzianità di ser­vizio », racconta Simona Cuomo, co­ordinatrice dell’Osservatorio. Ecco il risultato: le impiegate portano a casa, in media, l’1,9% in meno, i quadri rosa -3,6%, le dirigenti -3%. Il 2% è una media pesata tra tutte le categorie (tantissime le impiegate, una minoranza le dirigenti).

Segregazione strisciante
I discorsi sulle retribuzioni delle donne potrebbero finire qui. Con un semplice «il problema non esi­ste ». «È vero, la nostra indagine ri­dimensiona la questione del diva­rio retributivo legato al sesso. Ma nello stesso tempo mette il dito su un altro problema. Il Problema, di­rei — puntualizza Cuomo —. Le donne sono inserite nel mercato del lavoro a livelli bassi. Sono sol­tanto il 13% dei dirigenti, per capir­ci. E poi si trovano nelle funzioni meno pagate, l’amministrazione per esempio». La prova? «Viene an­cora dalle buste paga — risponde la ricercatrice —. Se si prende il mon­te delle retribuzioni femminili lor­de (compresa la parte variabile) e lo si divide per il numero delle lavora­trici, si scopre che, in media, gli sti­pendi delle donne sono più bassi del 25,2%. E questo proprio perché le signore sono tutte concentrate nelle posizioni meno pagate».

Cuomo e i suoi collaboratori so­no anche convinti che non ci si pos­sa affidare alla naturale evoluzione del mercato del lavoro nella speran­za che le cose si sistemino da sole: «Il problema esiste anche nei Paesi europei in cui la presenza delle don­ne sul lavoro è molto maggiore del­la nostra. Segno che siamo di fronte a una questione che va governata con politiche ad hoc».

Crisi al maschile?
Ora a sparigliare le carte potreb­be pensarci la crisi globale. La tem­pesta perfetta che ha investito i mer­cati secondo alcuni segnali prove­nienti dagli Stati Uniti già da inizio anno ha favorito le donne. Negli Usa i tassi di disoccupazione ma­schili sono cresciuti di qualche deci­male in più rispetto a quelli femmi­nili. In Italia l’ultima rilevazione Istat sulla forza di lavoro va nella stessa direzione: i più colpiti dalla recessione sarebbero i maschi capi­famiglia. Anche perché in difficoltà sono soprattutto alcuni settori tradi­zionalmente maschili come le co­struzioni e il manifatturiero. «Senza contare che con la crisi le aziende dovranno valorizzare le loro risorse migliori puntando sul merito. Un criterio che premierà anche molte donne», interviene Arnaldo Camuf­fo, docente di Organizzazione azien­dale in Bocconi.

Meritocrazia cercasi
Ma queste prime evidenze non convincono tutti. «I conti sull’im­patto di genere andranno fatti alla fine della crisi — frena Susanna Ca­musso, della segreteria Cgil —. Per cominciare bisogna tenere conto che in questi mesi i primi a perdere il posto sono stati i lavoratori con contratti precari. E una grossa fetta di questi sono donne. Poi la crisi sta raggiungendo anche i servizi dove l’occupazione femminile è maggio­re. Penso alle imprese di pulizie, per esempio. Per finire, temo che, dovendo scegliere chi tenere e chi mandare a casa, le imprese privilegi­no gli uomini nella convinzione che la loro disponibilità sarà mag­giore ».

Pessimista anche Marisa Monte­giove, responsabile del gruppo Don­na manager di Manageritalia, l’asso­ciazione che rappresenta i dirigenti dei servizi (per il 18% donne). «Ma­gari la crisi spingesse le aziende a premiare il merito, le signore non chiederebbero altro. Per ora l’im­pressione è che si stia sparando a ze­ro su tutto. Spero di sbagliarmi, ma le imprese tagliano e riorganizzano il più possibile senza discrimine», allarga le braccia la dirigente. «Per di più alcuni pregiudizi sembrano rinvigoriti — continua Montegiove —. Basti pensare che per le donne imprenditrici e dirigenti accedere al credito è più difficile. Evidentemen­te le banche le considerano meno credibili. E il tutto nonostante nu­merosi studi dimostrino come la presenza femminile nei consigli di amministrazione aumenti l’affidabi­lità dei conti delle imprese».

Cassa in rosa
Nei prossimi mesi i dati sull’occu­pazione offriranno nuovi elementi di valutazione in materia di impat­to di genere della crisi. Intanto alcu­ne osservazioni sono offerte dai di­versi settori produttivi. «Le donne hanno grandi capacità e competen­ze ma spesso nelle nostre aziende sono penalizzate dalla congiuntu­ra », avverte Paolo Galassi, presiden­te di Confapi, Confederazione nazio­nale delle piccole e medie imprese. «I problemi sono due — continua Galassi —. Il primo: le donne sono concentrate in funzioni impiegati­zie più intercambiabili e più facili da ridimensionare rispetto alla pro­duzione. Il secondo: le donne sono più disponibili alla cassa integrazio­ne. Perché perdono una parte delle loro entrate ma nello stesso tempo risparmiano a casa su colf e baby sit­ter ».

«Nel commercio, un settore ad al­ta partecipazione femminile (le donne sono poco meno del 50%, ndr), la crisi colpisce senza fare dif­ferenze di genere», assicura France­sco Rivolta, presidente dell’Osser­vatorio sul mercato del lavoro di Confcommercio. Certo in difficoltà sono soprattutto le piccole attività. Circa 40 mila piccole imprese del commercio hanno chiuso nell’ulti­mo anno. E la gran parte della forza lavoro dei piccoli è proprio femmi­nile.

Il Corriere della Sera, 19 giugno 2009