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“Alla fine del bipartitismo l’astensione è nel Pdl”, di Ilvo Diamanti

La geografia politica italiana, dopo le elezioni amministrative di questo mese, si è riequilibrata. Cinque anni fa si era spostata a sinistra, in modo più accentuato che nel passato. Oggi il divario si è riassorbito. Le province. Erano 50 di centrosinistra e 9 di centrodestra.

Oggi il centrosinistra governa in 28 e il centrodestra in 34. Quanto ai Comuni capoluogo in cui si è votato, il centrosinistra ne amministrava 27 ed è sceso a 18, mentre, parallelamente, il centrodestra ha eletto 14 sindaci quando prima ne aveva solo 5. L’impianto urbano del centrosinistra, dunque, per quanto indebolito, resta solido. Tanto più se allarghiamo lo sguardo fino a comprendere le città medie (superiori a 15mila abitanti). Dove il centrosinistra ha eletto il candidato sindaco in 122 dei 220 al voto. Peraltro se si ragiona distintamente sui due turni, risulta evidente che le perdite le ha subite, perlopiù, al primo turno. Mentre ai ballottaggi ha riconquistato gran parte delle province e delle città rimaste in lizza.

Poi, contano i segnali. Dopo il primo turno il centrosinistra temeva di veder franare la terra sotto ai propri piedi. In altri termini: di perdere le regioni rosse. Non è avvenuto. Ha, inoltre, tenuto nel Mezzogiorno. Soprattutto nelle città. Mentre ha sofferto nel Nord. Il secondo turno ha fatto emergere anche un diverso grado di mobilitazione degli elettorati. La “ripresa” del centrosinistra al secondo turno coincide, infatti, con il “ritiro” di una parte degli elettori del centrodestra. Nelle capitali di regione è evidente. A Firenze e Bologna: il calo della partecipazione elettorale (oltre 14 punti percentuale in entrambi i casi) si è tradotto in un allargamento delle distanze a favore dei candidati del centrosinistra. Rispettivamente: Renzi (da 16 a 20 punti percentuali) e Delbono (da 20 a 21).

Più clamoroso il caso di Bari, dove la partecipazione fra i due turni è calata (anche qui) di circa 14 punti percentuali (pari a 40.000 votanti). Punendo il candidato del centrodestra, Di Cagno, che perso 25mila voti rispetto al primo turno. Il suo distacco da Vittorio Emiliano è, così, salito da 3 a 20 punti.

Un’evoluzione simile si osserva anche a Potenza e ad Ancona. Ma soprattutto nelle province metropolitane del Nord. A Milano, dove la partecipazione elettorale fra i due turni cala di 24 punti percentuali e di quasi 600mila voti, il distacco di Podestà nei confronti di Penati viene quasi annullato. Da 10 a 0,4 punti percentuali. Podestà ottiene 250 mila voti in meno (Penati 90 mila).

Infine a Torino, dove votano 500 mila elettori in meno del primo turno, il presidente uscente e candidato del centrosinistra, Saitta, perde circa 90 mila voti. Ma la sua avversaria, Porchietto, vede ridursi il risultato del primo turno di 166 mila voti e il distacco da Saitta dilatarsi: da tre a quasi 15 punti percentuali. Per cui se l’astensione cresce dovunque, al secondo turno, per ragioni diverse e in parte fisiologiche, tende però a colpire, in modo patologico, soprattutto i candidati del centrodestra. Che vincano o perdano, non importa.

Da questa rappresentazione geopolitica si ricavano alcune indicazioni, a nostro avviso, chiare.

1. Anzitutto, l’elettorato è meno stabile di quanto le mie stesse mappe lo rappresentino. Certo: il centrosinistra è ancorato al Centro e il centrodestra al Nord. Tuttavia, il Mezzogiorno era e resta fluido. Il Centro è meno stabile del passato. E nel Nord neppure Milano pare predestinata. Insomma: il paese è diviso. E il gioco elettorale, per molti versi, aperto.

2. Il risultato delle amministrative e, anzitutto, delle europee suggerisce la crescente difficoltà di far coincidere bipolarismo e bipartitismo. Il peso elettorale del Pd e del PdL, infatti, si è ridimensionato sensibilmente, a favore dell’Idv e della Lega. I cui elettori rappresentano quasi un quarto delle rispettive coalizioni. Inoltre, il risultato delle amministrative, in molti casi, è dipeso dalle coalizioni “locali” più che dal rendimento dei partiti maggiori. Il successo del centrodestra nel Nord deriva dall’intesa fra PdL e Lega. Cinque anni fa, invece, la CdL si era alleata prevalentemente con l’Udc, mentre la Lega aveva corso perlopiù da sola. L’Udc, d’altronde, si è alleata o apparentata con il centrosinistra in 6 province. Contribuendo al successo in 5 di queste.

3. Da ciò una conseguenza. In Italia non ci sono più partiti dominanti. Con questo sistema elettorale: non ci saranno mai più. E l’esito del referendum suggerisce che difficilmente riusciremo a cambiare modo di scrutinio con la spinta popolare.

Il Pd e il PdL sono, dunque, destinati a costituire i riferimenti principali dei poli. Ma non autosufficienti. Il Pd, con il 26% non può aspirare all’autosufficienza. Dovrà costruire alleanze intorno a programmi, progetti. Con l’Idv, l’Udc, una parte della sinistra. Lo stesso vale, però, per il centrodestra. Fin dall’origine: un network con un solo, unico frame, un solo unico gancio. Silvio Berlusconi e il suo partito personale. In pochi mesi, in poche settimane, quel gancio è divenuto molto più traballante. Quel puzzle molto più dada. Senza la Lega: non riesce a controllare il Nord. Ma neppure la Sicilia, senza Lombardo. E l’immagine del leader più che una risorsa è divenuta un limite.

4. Da ciò l’importanza crescente dei “partiti di mezzo”. Per dimensione. Ormai centrali anche per importanza politica. La Lega, l’Idv e oggi l’Udc. Casini è riuscito a rafforzarla pur tenendola “fuori”. Non era facile. Oggi dovrà decidere come e con chi giocare. Non sarà facile. Anche se riesce arduo immaginarlo alleato al centrodestra. Per motivi di ostilità personali fra leader. E per l’alternativa irriducibile – storica, geopolitica, culturale – con la Lega.

5. Infine, gli elettori. Usano, in modo e in misura crescente, il non voto come un voto. Di volta in volta, a seconda dell’elezione, del candidato, del momento. Occorre, dunque, dare loro buone ragioni: non solo “per chi” votare, ma anche “per” votare. D’altra parte l’astensione in questa occasione è cresciuta, infatti, in modo anomalo, rispetto al passato. Ha interessato gli “esuli” del Pd, alle europee; ma, soprattutto gli “elusi” del PdL. Gli elettori di centrodestra. In molti, hanno preferito fuggire. Nascondersi. Non solo per ragioni locali, immaginiamo.

Da ciò la conclusione obbligata, per quanto banale: il gioco è aperto. Il paese è politicamente contendibile. Dipende dalla qualità dei contendenti. Che, da oggi, non sono e non saranno solamente due.

La Repubblica, 24 giugno 2009